È un libro molto americano: una biografia che mentre racconta la propria storia racconta quella collettiva e, soprattutto, racconta la storia di due idee: l’idea di comunismo e quella di liberalismo.
La prima è crollata sotto le macerie del Muro di Berlino, la seconda cerca disperatamente di sopravviverci, non avendo, a differenza della prima, perso il senso e la ragione della sua esistenza. C’è un’asimmetria feconda nel libro di Antonio Polito, appunto il Muro che cadde due volte (editore Solferino): si sviluppa intorno alla storia dell’amore per un’ideologia, quella comunista, smentita dalla realtà, e al filo di vertigine che prende l’autore nell’abbracciare quella liberale, il cui pericolo – ben avvertito – è proprio nel vederla come l’alternativa (come ideologia contrapposta) a quella comunista. Mentre è un metodo, una prospettiva, una ricerca della verità, piuttosto che la Verità.
Al di là di questa sintesi un po’ criptica (e il cui effettivo scioglimento sta solo nella lettura del libro), Polito entra potentemente nel merito di due questioni dalla soluzione delle quali dipende oggi il futuro del mondo che diciamo democratico. La prima questione ruota intorno a cosa sarà (cosa è già) la democrazia nel mondo dominato dai grandi player digitali. Siamo ancora democrazia solo perché votiamo di tanto in tanto e possiamo scrivere qualunque sciocchezza sui social media? La seconda si rivolge alla singola persona, alle prese con sé stessa: la quale se è davvero liberale, seguirà non ciò che seguono tutti ma la propria coscienza e saprà sostenere quello che sente giusto e non ciò che ha più probabilità di successo o comunque appare più conforme al pensiero prevalente.
Vediamo di districare prima l’una e poi l’altra questione, che per altro sono connesse tra loro. Il mondo liberale sembrava aver vinto per sempre, visto dalla prospettiva del crollo del mondo comunista, prima morale e poi materiale (è incredibile come non si tenga mai conto che i due fattori siano sempre reciprocamente correlati, da Max Weber in poi, ma è una prospettiva che nessuno assume mai seriamente). Insomma, la globalizzazione è sembrata l’approdo normale, naturale, ovvio, di quella vittoria. Non poteva che portare del bene all’umanità e lo ha fatto. Lo ha fatto però soprattutto nei paesi asiatici, e comunque non tradizionalmente liberali, mentre da noi in Occidente ha sì creato ricchezza (non in Italia), ma ha creato un disagio inedito, un disorientamento verso una logica di razionalizzazione della società guidata dall’economia, non dalla politica, né tantomeno dai valori sociali.
Lo sanno tutti (gli economisti per primi) che l’economia non è un mondo in sé, non ha valori in sé, ma li trae da qualcosa fuori di sé. È appunto dalla società borghese, dall’etica protestante o dall’economia sociale di mercato d’ispirazione cristiana. L’economia non è mai poggiata su sé stessa. Ci sarebbe l’economia agricolo-pastorale senza l’ideologia patriarcale? Ci sarebbe il comunismo cinese senza la logica etnico-religiosa che governa quel paese-continente? Ci sarebbe l’autocrazia di Valdimir Putin senza la steppa sconfinata, lo zar e la Madre Russia?
La globalizzazione senza anima, cioè senza valori e senza un’attribuzione di senso, legata solo alla competizione come metodo per abbassare i costi di produzione e di distribuzione, poteva riempire il cuore degli uomini? Non l’ha riempito. Così Antonio Polito può raccontare come quell’epopea che si prospettava lineare, senza increspature, senza controindicazioni, è stata contestata dall’esterno da parte dell’offensiva jihadista, cioè fondata sul primato religioso fondamentalista – che prova a cancellare ogni spirito liberale (visto come il padre di ogni “Satana”) – e dall’interno come rivolta verso le élite.
Adesso il cuore dei valori della democrazia dell’Occidente (la libertà, la tolleranza, la sovranità popolare) è assediato, mentre dall’interno c’è un progressivo svuotamento della democrazia stessa. Se l’opinione pubblica può essere plasmata, manipolata, resa innocua dagli algoritmi e dalla disponibilità infinita (e in tempo reale) dei dati personali in mano a pochissimi soggetti, cosa rimane della libera scelta personale, cioè della nozione, che al di là di tutto e avanti a tutto, costituisce l’essenza del messaggio cristiano e il fondamento della civiltà occidentale? Se siamo svuotati dalla libertà di scelta (non per una dittatura che ce lo impedisca, ma per la estrema conoscenza da parte di pochi del funzionamento dei comportamenti umani) cosa rimane di reale nella nostra democrazia?
Siamo così al secondo corno del problema, rappresentato dalla dimensione individuale, dal comportamento da sostenere come singola persona, visto che non c’è un sistema assoluto (o almeno non è auspicabile che ci sia) da contrapporre a un altro, ma solo un metodo, appunto il metodo liberale.
Dobbiamo studiare i meccanismi di funzionamento del cervello, sostiene giustamente Polito, se vogliamo difenderci, sia come singoli che come collettività, dalle manipolazioni della comunicazione fondata sugli algoritmi e sulla scienza predittiva.
Su questo, ad esempio, è incredibile come la sinistra mostri disprezzo verso qualunque scoperta scientifica (sì scientifica, non fondamentalista) che attribuisca alle emozioni lo stesso livello di importanza della razionalità: urge un corso accelerato sugli scritti di Antonio Damasio e Daniel Kahneman.
Sempre sulla falsariga dell’interesse personale e quello collettivo che s’intrecciano e si richiamano costantemente, c’è l’altro suggerimento di Polito, cioè di arrivare a una regolazione dei dati personali. Si è cominciato a fare qualcosa, ma siamo molto lontani da una situazione in cui l’effettivo potere sui propri dati personali sia delle persone stesse, e non dei grandi player digitali. Le primarie democratiche negli Stati Uniti si stanno giocando su questa nuova frontiera. Il potere della libera scelta è fondato sul potere intoccabile di governo della propria persona, e i dati personali sono parte costitutiva dell’identità personale. Da questo nesso non si sfugge.
Su questa traccia si arriva alla conclusione del libro. Se nei primi capitoli Polito descrive gli effetti nefasti di una società concepita come una piramide, alla cui base ci sono le persone che non contano nulla (in quanto singole persone) e al vertice c’è lo Stato, e su quello la politica, e su questa il partito, e su questo il “Segretario Generale”, si capisce la superiorità liberale, perché concepisce la politica come una parte della società, non come il soggetto che la sovra-ordina, e offre spazio e ragione a un sistema poli-centrico, in cui ogni singolo mondo (lo sport, la scienza, la religione, la cultura, l’arte, ecc.) si manifesta senza sottomettersi all’uno o all’altro e meno che mai allo Stato; su questa situazione si avverte il nuovo pericolo dei monopoli digitali nella loro capacità di sovra-ordinare i comportamenti sociali.
Oggi il mondo liberale, occidentale, giudaico-cristiano è attaccato dalle “democrazie illiberali”, al cui centro c’è la negazione (in forme diverse dai fondamentalismi) del primato della persona, che sarebbe sussunto dal popolo (concepito come entità onnisciente e uniforme), deve rivitalizzarsi proprio a partire dal rafforzamento del potere sostanziale delle singole persone, che deriva dalle loro coscienze e dal primato della irriducibilità della persona rispetto a qualunque aggregazione: tribù, partito o popolo che sia.
D’altra parte, «sono grande, contengo moltitudini», diceva Walt Whitman, padre spirituale dell’individualismo democratico e dell’universo morale degli Stati Uniti, non diceva «sono piccolo, mi cancello nella moltitudine»: l’essenza del pensiero democratico è tutta qui. Ogni regime che vuole cancellare l’eccezione, cioè la “singolarità” di ogni singola persona, sosteneva Søren Kierkegaard, è tirannico già nella sua concezione. Un ritorno alle origini, alle radici, al senso profondo della nostra civiltà, fondata su quell’eccezione, è l’unica strada che ci salverà.