Missili e bambini. Il passaggio più esplicativo della riforma proposta da Vladimir Putin nel suo discorso annuale al parlamento non sono gli emendamenti costituzionali per rimanere al potere dopo il 2024, ma la sua visione del Paese che governa da vent’anni. Si è vantato delle nuove armi strategiche russe, che «per la prima volta, anche nella storia sovietica», non sono seconde a nessuno, e grazie a questi missili «possiamo ora fare molto di più per risolvere i fondamentali problemi interni, concentrarci sulla crescita economica e sociale di tutte le nostre regioni, negli interessi della gente». Virgolettato. Cioè i missili sono la condizione necessaria per lo sviluppo. Minacciato però dalla caduta demografica, e il presidente ha raccontato il suo sogno di tanti bambini che «scoprono i veri valori di una famiglia numerosa», promettendo una pioggia di finanziamenti a chi fa figli e colazioni calde a tutti gli alunni delle elementari, perché «la maggioranza delle famiglie povere sono famiglie con figli».
Per governare questo Paese povero con tanti missili e pochi bambini, il presidente non propone più programmi ambiziosi, come vent’anni fa, quando aveva posto come obiettivo strategico della Russia eguagliare il PIL pro capite del Portogallo (traguardo mai raggiunto). Lancia invece una riforma costituzionale dai contorni ancora tutti da definire, i cui punti principali sono, in ordine di apparizione: 1) la supremazia del diritto nazionale su quello internazionale se quest’ultimo viola i diritti dei russi; 2) il divieto per i funzionari del governo, i parlamentari e i giudici di possedere cittadinanza o permesso di soggiorno di un Paese straniero; 3) il candidato alla presidenza non deve mai aver avuto cittadinanza o residenza estera, risiedere in Russia da almeno 25 anni e non potrà fare più di due mandati consecutivi; 4) più poteri ai governatori, che siederanno in un Consiglio di Stato ancora da inventare; 5) la Duma potrà non solo ratificare il premier proposto dal presidente, ma deciderlo ed eleggerlo, approvando poi i ministri proposti dal capo del governo; 6) il presidente potrà licenziare i capi della Corte Suprema e Corte Costituzionale. Il tutto dovrebbe essere approvato dai cittadini russi a un referendum.
Subito dopo l’annuncio di queste proposte del presidente – il discorso è stato trasmesso in diretta nazionale e perfino proiettato su maxischermi per strada e sulle pareti degli edifici di Mosca – il governo di Dmitriy Medvedev, in carica dal 2012, si è dimesso, a quanto pare senza aver avuto alcun preavviso. Altre due ore dopo Putin ha nominato come nuovo premier Mikhail Mishustin, il 53enne capo del fisco, un tecnico famoso finora essenzialmente per aver implementato un sistema che gli permette di vedere online tutti gli scontrini battuti dalle casse russe. In altre parole, un illustre sconosciuto, come era Vladimir Putin quando venne nominato “delfino” da Boris Eltsin, più di vent’anni fa.
Un terremoto, la cui causa è evidente: il “problema-2024”, il termine in cui scade il quarto (e secondo consecutivo) mandato di Putin e la Russia teoricamente dovrebbe dotarsi di un nuovo presidente, e affrontare una transizione di cui tutti invocano la necessità quanto ne hanno paura. Che Putin non se ne sarebbe andato in pensione era un argomento che non veniva nemmeno discusso, la domanda era come gestire la transizione da Putin a Putin (o a un suo eventuale delfino). Le due ipotesi sul tavolo erano la creazione di un nuovo Stato, unendo la Russia alla Bielorussia, con conseguente azzeramento di tutti i mandati presidenziali precedenti, e la “variante del Kazakistan”, con il presidente eterno Nursultan Nazarbaev diventato padre della nazione e capo del Consiglio di Stato, cioè un leader supremo non più soggetto a elezioni. Ma la fusione con la Bielorussia avrebbe implicato entrare in società con un leader astuto e ingovernabile come Aleksandr Lukashenko, e Putin non è il tipo da lavorare in società con qualcuno. Gli indizi portano quindi alla “variante kazaka”.
Il “problema-2024” è il problema numero uno della società russa, con la necessità di un cambiamento generazionale e politico – innanzitutto per quanto riguarda la distensione con l’Occidente e l’uscita dall’isolamento – riconosciuta perfino dai putiniani. Putin ha deciso di giocare d’anticipo, prima di aspettare che i vari gruppi interni del potere formulino eventuali strategie. Una covert operation in perfetto stile putiniano: i ministri hanno appreso di essere stati mandati a casa mentre stavano ascoltando il presidente. Operando in totale segreto, come sempre, Putin ha deciso di riscrivere le regole e fare la sua offerta ai russi. Punto primo: la Russia non sarà più soggetta al diritto internazionale, e le leggi, le risoluzioni dell’Onu e del Consiglio d’Europa e i verdetti dei tribunali internazionali non avranno più valore sul suo territorio (se violano i diritti dei russi, che notoriamente godono di libertà ben più ampie di quelle offerte da Strasburgo e Aia). Questa è la base di partenza per procedere al resto, come la norma del presidente che può licenziare i capi del potere giudiziario. I dirigenti supremi non potranno avere nessun legame con l’estero, peraltro già proibito per legge. Un passaporto europeo o almeno un permesso di soggiorno a Cipro o in Lettonia (con annessa villa) è un accessorio must di tutta l’élite russa, e non è chiaro se questa modifica costituzionale rimarrà soltanto sulla carta, a rispecchiare la paranoia del Cremlino, oppure se Putin ha in mente una purga colossale del suo apparato. La norma sul presidente che non può aver abitato all’estero (alla quale lo stesso Putin non avrebbe potuto corrispondere, avendo lavorato per il Kgb a Dresda) eliminerebbe una volta per tutte concorrenti dell’opposizione come Alexey Navalny (che ha studiato a Yale) o Mikhail Khodorkovsky (esule tra Londra e Svizzera). E l’attribuzione al capo del potere esecutivo del diritto di licenziare i capi di quello giudiziario rende definitivamente manipolabili i tribunali.
Stabilite le regole del gioco, si procede alle proposte. Il parlamento potrà non soltanto mettere il bollino sulle leggi scritte al Cremlino, ma anche proporre il premier, e discutere i ministri. Nel sistema elettorale e mediatico russo l’emersione dell’opposizione attraverso le urne appare per ora totalmente improbabile, e quindi fondamentalmente la proposta di Putin è diretta alle varie lobby politiche che avranno così un margine di negoziato più ampio. I governatori sono stati invitati a diventare azionisti minoritari del potere federale nel neonato Consiglio di Stato e avranno più potere sul terreno: un invito a non creare eventuali cordate per il 2024, ma di tenersi fedeli al Cremlino. Agli elettori sono stati promessi sussidi, stipendi minimi, scuole e medicine, per una spesa che l’ex ministro del Tesoro Aleksey Kudrin ha già stimato in un mezzo punto del PIL. Potranno anche dire la loro sulla riforma costituzionale, a un referendum che il portavoce di Putin ha già chiamato «consultazione e non referendum» e la presidente della Commissione elettorale centrale ha definito «non necessario». Il Cremlino comunque controlla ancora abbastanza bene le urne da non doversi preoccupare dell’esito del voto, che peraltro sarebbe un’innovazione totalmente inedita per la Russia putiniana (l’ultimo referendum nazionale risale al 1993, quando era stata approvata la Costituzione che Putin vuole ora emendare).
Resta un solo vero interrogativo: chi sarà il beneficiario della riforma? Chi sarà il nuovo presidente, che avrà un po’ meno poteri rispetto al parlamento e al Consiglio di Stato, ma più potere sui giudici? Un Putin Quinto, in attesa di trovare un escamotage per farlo rieleggere (non ha mai parlato di un suo allontanamento dal potere né menzionato il fatto che le sue proposte dovrebbero teoricamente riguardare un altro presidente)? Un tecnico fedelissimo che si farà dirigere da Putin diventato padre della patria al Consiglio di Stato? Il neopremier Mishustin potrebbe essere il nuovo Medvedev o sarà soltanto un premier di passaggio, come Putin ne ha già avuti tanti? Nei corridoi moscoviti si parla di un blitz del Cremlino per anticipare le elezioni alla Duma tenendole insieme all’ipotetico referendum, per poi anticipare anche quelle presidenziali e non dare agli eventuali avversari il tempo di organizzarsi. Quello che è chiaro è che alle attese (scarse) di un’apertura e di un “reset”, o di una nuova “perestroika”, il capo del Cremlino ha risposto che non si cambia nulla.