C’era una volta il rock and rollMusica e il resto scompare, ma mica tanto: i concerti inquinano e devono diventare più ecologici

Da tempo i musicisti, costretti dal modello di business ad affidarsi alle tournée, si mostrano preoccupati per l’impatto sull’ambiente provocato dalla loro attività. I Coldplay rinunciano, Jovanotti ci ha provato ma soluzioni semplici non ce ne sono, qualche idea sì

KEVIN WINTER / GETTY IMAGES NORTH AMERICA / AFP

Non c’è musica su un pianeta morto. È la scritta che la cantautrice americana Billie Eilish ha mostrato, sulla sua maglietta, lo scorso novembre. Voleva manifestare la sua preoccupazione (che dovrebbe essere di tutti) nei confronti del cambiamento climatico, e al tempo stesso, portare l’attenzione su un tema che impensierisce tanti altri suoi colleghi: fare musica inquina. Come spiega il New Yorker, per generare ricavi gli artisti sono sempre più costretti ad affidarsi ai tour di concerti (conseguenza dello streaming): suscitano entusiasmo, certo. Ma provocano anche emissioni (aerei, trasporti, collaboratori, chioschi, le auto del pubblico nei parcheggi) e immondizia. Che fare, allora, per essere responsabili e sostenibili?

Per i Coldplay la soluzione è semplice. Basta con i tour. E non promuoveranno il loro ultimo album, “Everyday Life ”del 2019, con nessun concerto. Del resto la band, che nel 2017 e 2018 ne ha collezionati ben 122 in cinque continenti, se lo può permettere. Ci hanno pensato (ma non lo hanno per ora deciso) anche i Massive Attack, che da tempo studiano l’impatto ambientale delle loro tournée. «In questo contesto di emergenza non si può più accettare di fare come si è sempre fatto», ha dichiarato Robert Del Naja.

Per gli altri, cioè gruppi e cantanti meno famosi, la questione è più complicata. Rinunciare ai tour significa, molto spesso, chiudere bottega. Una soluzione di compromesso è stata trovata da Adam Gardner, chitarrista dei Guster, che insieme all’ambientalista Lauren Sullivan ha fondato Reverb, cioè una non-profit che si occupa di gestire e organizzare concerti minimizzando l’impatto ambientale. Ad esempio con una pianificazione più intelligente – la maggior parte dei musicisti segue più o meno le stesse tappe, componendo un giro del mondo di festival e date obbligatorie che assume un costo, in termini di emissioni, altissimo – cioè eliminando alcuni appuntamenti, rivolgendosi a sponsor per finanziare villaggi ecologici, tagliando le bottiglie di plastica, adottando mezzi di trasporti a biocarburanti, rifornendosi da fattorie locali, obbligando i chioschi ad avere un pedigree più green e, soprattutto, incitando i fan a fare carpooling e usare i mezzi di trasporto. Cambiare dove si può e abbattere emissioni dove si deve. Lasciando intatta la struttura portante, cioè il concerto. Billie Eilish stessa si è rivolta a Reverb, e così Shwan Mendes e i Maroon Five, per citarne solo alcuni.

Se no, si può fare come Caribou e rivolgersi a PLUS1.org, una non profit pensata dagli Arcade Fire che aggiuge un dollaro a ogni biglietto venduto e fornisce consulenza su dove e come spenderli. Sono ammesse anche cause diverse da quelle ambientali. L’importante, dice Snaith (alias Caribou) è che gli artisti ripensino al loro business. «Dobbiamo smettere di considerare intellgente suonare un giorno a Barcellona, quello dopo a Londra e poi a New York». Provocando lo spostamento, anche in aereo, di centinaia di fan.

Eppure si viaggia e si continuerà a viaggiare. Per Tamara Hope (Lindeman) è un aspetto irrinunciabile. La cantante e attrice canadese, che già rinuncia alla plastica mentre è in viaggio e investe parte dei ricavi per compensare il carbonio generato dalle sue tournée è pessimista: «Alla fine questi sono solo piccoli gesti», non certo soluzioni decisive. E se «fare concerti, al giorno d’oggi, è necessario», rivoluzionare tutto è impossibile. E come, poi? A conti fatti, non sarebbe nemmeno la scelta indicata.

Perché se è vero i concerti costituiscono un peso per l’ambiente, lo stesso si può dire per i dischi: sia i cd che i vinili sono molto difficili da riciclare, in più sono fatti da materiali che impiegano secoli per essere assorbiti dall’ambiente. I secondi poi, inquinano molto anche durante il processo di produzione. Rimane lo streaming, che però inquina tantissimo: l’energia impiegata per immagazzinare, trasmettere e scaricare canzoni produce di milioni di chili di emissioni in gas serra. Nel 2016 erano 200 milioni, solo negli Stati Uniti.

E allora meglio la musica dal vivo. Sia perché è un evento sociale, con tutti i vantaggi che comporta, sia perché, promuovendo iniziative di sostenibilità, porta avanti comunque il cambiamento. Si pensi ai festival: a Glastonbury, in Inghilterra, sono state proibite le bottiglie di plastica monouso e le uniche stoviglie ammesse sono quelle riciclabili. Oppure all’Unsound di Cracovia, dove sono state conteggiate le emissioni per compensarle piantando nuovi alberi. Oppure ancora, per guardare all’Italia, il Jova Beach Party del 2019, impresa unica nel suo genere con cui Jovanotti, oltre a promuovere in ogni tappa temi ambientalisti, si è avvalso della collaborazione del WWF per assicurarsi che ogni concerto risultasse sostenibile. Questo non lo ha purtroppo messo al riparo dai professionisti dell’ambientalismo, che lo hanno attaccato in ogni occasione (soprattutto per la sua tappa montanara). Lui però ha saputo, con un certo eroismo, rispondere a tono.

Tutte piccole cose, insomma, che, come allude Tamara Hope, non risolveranno da sole il problema. Ma almeno sensibilizzano e promuovono nel pubblico una cultura ambientalista. Questa, alla lunga, si riverbererà anche in altri ambiti, con un impatto difficile da quantificare. Ma con ogni probabilità, molto importante.

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