«Figlia di un genio, innamorata di un genio, allieva di un genio, paziente di un genio». La lapide, nel piccolo cimitero di Northampton, in Inghilterra, avrebbe potuto recare questa epigrafe. Vi si legge invece solo il nome di chi riposa lì sotto, e poi le date: LUCIA ANNA JOYCE, TRIESTE 1907 – NORTHAMPTON 1982.
Sulla figura di Lucia Joyce si sono affannati biografi, commediografi, saggisti e poeti, i quali, avendo a disposizione una sterminata documentazione riguardante l’intera opera di suo padre James (ma anche la sua vita, il suo matrimonio, gli appetiti sessuali, l’alcolismo, i problemi di salute…), si sono chiesti come mai sulla figlia Lucia esistesse una così esigua letteratura. Da questo inspiegabile vuoto sono partite le ricerche, su questa assenza sono stati scritti dei libri. Certamente le poche informazioni hanno solleticato ipotesi e interpretazioni, (l’assenza di una storia costringe a inventarla), eppure sono certa che a scatenare la curiosità, a tratti anche morbosa, sulla figlia di James Joyce, sia stata una fotografia.
Chiunque si trovi dinanzi a quell’immagine, pur senza conoscere l’identità del soggetto ritratto, ha voglia di saperne di più.
Così è capitato a me. Ed ecco perché, anch’io, scrivo di lei. Per quella foto datata 1929. L’ho trovata per caso, sfogliando un giornale. L’ho ritagliata e incollata sullo sportello del frigorifero, e ogni giorno vi si posano i miei occhi.
Una ragazza. Bellissima. Indossa un bizzarro costume da sirena, rivestito di scaglie scintillanti. Una gamba è scoperta, l’altra no, a suggerire il profilo di una coda. Braccia nude, piedi scalzi. Sulla testa un cappuccio aderente, anch’esso intessuto di scaglie, dal quale pendono lunghe ciocche di capelli biondi. Il corpo flessuoso mantiene l’equilibrio in una posa instabile, diagonale, il ginocchio sinistro piegato in avanti mentre l’altra gamba cerca la spinta con il tallone sollevato dal pavimento, i muscoli tesi a bilanciare la parte inferiore del corpo con quella superiore che pare muoversi in direzione opposta, le braccia penzolanti da un lato, come volessero resistere all’avanzamento dei piedi. Il volto è concentrato nell’esecuzione di un movimento che deve risultare fluido, elegante. C’è qualcosa di selvaggio in quella postura, selvaggio e leggiadro. Ma soprattutto (ed è questo che ha colpito la mia attenzione), si stenta a credere siano trascorsi novant’anni dall’istante catturato nella foto. Quasi un secolo, eppure quella ragazza si direbbe appartenere a un’epoca diversa, a un passato molto più recente e familiare: viene in mente una figlia dei fiori, una hippie anni ’60, una di quelle meravigliose groupies che si scatenavano a Woodstock. Lucia sta danzando, immaginiamo di ascoltare la musica che accompagna i suoi passi e il tintinnio dei sonagli che qua e là pendono dal costume.
Questa foto così rara è stata scattata in occasione di un festival internazionale di danza che si svolgeva nell’immensa sala del Bal Bullier, nel quartiere Latino a Parigi. Siamo negli anni Venti, les années folles, nella città in cui l’arte si esprime in tutte le possibili forme. Il desiderio di libertà che segue il primo dopoguerra si riflette anche attraverso un nuovo stile di danza, esplicitamente contrapposto al balletto classico: il primo segnale del cambiamento furono i piedi scalzi di Isadora Duncan. La competizione al Bal Bullier riuniva dunque i ballerini di danza libera, oggi conosciuta come danza moderna. Ai concorrenti era stato richiesto un numero creato appositamente da un coreografo seguito da una improvvisazione a sorpresa. Lucia ideò il ballo della Sirena, scelse il brano musicale di accompagnamento e realizzò quel fenomenale costume con le sue mani. Il pubblico ne rimase incantato, tanto che quando fu proclamata vincitrice una ballerina francese, la sala reagì con fischi e proteste. Fra gli spettatori c’erano due persone, il cui giudizio era per Lucia molto più importante di quello espresso dai membri della giuria: suo padre James e l’uomo del quale era innamorata, Samuel Beckett.
Dunque fin qui sappiamo che Lucia era una brava ballerina, così brava da far sbilanciare un critico nell’azzardata previsione: «Un giorno si parlerà di James Joyce come del padre di Lucia». Aveva studiato con uno dei coreografi più in vista di Parigi, Raymond Duncan, lo stravagante fratello di Isadora, pacifista e vegetariano, capelli lunghi fino alle spalle,sandali ai piedi e tunica come abito di ordinanza, e pareva destinata a un futuro sulle tavole del palcoscenico. La vita errabonda che l’aveva costretta a cambiare infiniti domicili e numerose città per via del lavoro paterno sembrava aver trovato un porto sicuro a Parigi. Ma qualcosa si rompe e Lucia comincia a dare segni di squilibrio. I segnali di una precaria salute mentale si erano già manifestati attraverso episodi di catatonia, piromania e inspiegabili sparizioni che potevano durare giorni interi senza che nessuno sapesse dove si era cacciata la ragazza. Per diverse ragioni, prima fra tutte il rifiuto e insieme la vergogna di riconoscere il disagio mentale di un congiunto, gli atteggiamenti di Lucia non erano mai stati presi in considerazione da un punto di vista medico. «È la persona più intelligente che conosca», dice di lei il padre.
Il loro rapporto è intenso, cerebrale, condividono un linguaggio privato i cui codici segreti si trasferiranno sulle pagine di Finnegan’s Wake, l’opera più misteriosa e indecifrabile dello scrittore irlandese («Perché ho scritto il libro a quel modo? Per tenere indaffarati i critici per i prossimi trecento anni»). Con la madre Lucia ha un rapporto conflittuale, Nora non sopporta la sensualità di sua figlia, è contraria allo studio del ballo e gelosa della complicità che la lega al padre. Viene ricoverata per la prima volta in sanatorio il giorno del cinquantesimo compleanno di suo padre. Nel corso di un’accesa discussione con la madre Nora, le ha scagliato contro una sedia. Non si conosce la ragione di quel gesto così violento, le illazioni al riguardo sono tutte plausibili e nessuna certa. Sarà il fratello Giorgio a prendere l’iniziativa di farla ricoverare. Non si saprà mai quale fosse l’origine di quello che il padre definì «Un fuoco nel cervello», acceso da «Ogni scintilla di talento che io possiedo e che a lei ho trasmesso». Non sappiamo se la passione non corrisposta per Samuel Beckett, giovane assistente del padre e assiduo frequentatore di casa Joyce, l’unico uomo di cui Lucia si sia innamorata, abbia contribuito al suo declino psichico. Sappiamo però che dal momento in cui James Joyce accetta che il comportamento imprevedibile della figlia non sia solo il frutto di un’intelligenza speciale ma nasconda un disturbo profondo, ogni suo gesto e pensiero sarà volto a trovare il modo per aiutarla. In una lettera a Harriet Weaver, mecenate dell’opera di Joyce, il comune amico Paul Léon confida: «La malattia di sua figlia ha acquisito la dimensione di un insondabile problema morale o per meglio dire, spirituale, che ha offuscato ogni altra cosa. Non esiste pensiero o azione che non sia indirizzato alla soluzione di questo problema».
A trentatré anni Lucia avrà fatto il giro dei manicomi europei, sarà stata sottoposta a un’infinità di controlli, avrà sperimentato cure e terapie di ogni genere, dall’isolamento totale alla camicia di forza, dal riposo indotto alle iniezioni di acqua marina. Molteplici le diagnosi: schizofrenia con elementi pitiatici, nevrosi, ciclotimia. Il padre non si arrende, spende per lei una fortuna ma nessuno è in grado di fornire una risposta alla sua domanda: «Di cosa soffre mia figlia?». Si rivolgerà infine a Carl Gustav Jung sebbene in passato il grande psicanalista abbia fornito una interpretazione dell’Ulisse che poco piacque al suo autore. Jung accetta di prendere in cura Lucia ma stenta a formulare una diagnosi precisa. Rileverà “elementi schizoidi” in alcune poesie scritte dalla ragazza. Joyce si opporrà all’analisi sottolineando il significato artistico di quei versi, a suo giudizio innovativi e portatori di “una nuova letteratura”. È l’intelligenza a farla soffrire.
Dopo mesi infruttuosi Jung non se la sente di continuare e abbandona la sua paziente. Quando Joyce andrà a prendere la figlia in Svizzera, congedandosi da Jung dirà: «Lucia ed io nuotiamo nella stessa acqua». «Sì, ma lei sta affogando», sarà la replica dell’analista. Il fallimento delle terapie indurrà Jung a distruggere le cartelle cliniche. È il destino che subiranno tutti i documenti riguardanti Lucia Joyce: le lettere, i diari, i disegni, le poesie, i referti clinici, le fotografie, e addirittura un memoir da lei scritto in manicomio dal titolo: La vera vita di James Joyce. Redatto in italiano, la prima lingua imparata e studiata da Lucia, nata e cresciuta a Trieste, di sicuro avrebbe rappresentato un tesoro inestimabile per i biografi. Il responsabile dello scempio è una figura controversa della famiglia: Stephen, l’unico nipote di Lucia, figlio del fratello Giorgio, visto con il fumo negli occhi da chiunque si sia avvicinato all’opera di James Joyce. Detentore, fino a pochi anni fa, dei diritti joyciani (allo scadere del settantesimo anno dalla morte di JJ. sono finalmente divenuti di pubblico dominio), ha combattuto una folle battaglia contro biografi, studiosi e accademici ai quali ha proibito l’accesso al prezioso patrimonio familiare, arrivando a minacciare azioni legali contro il Governo irlandese per impedire una pubblica lettura di Ulisse durante un Bloomsday (dal nome del protagonista Leopold Bloom, la tradizionale commemorazione osservata il 16 giugno, data in cui si svolge l’intero romanzo), a denunciare chiunque avesse tentato di citare l’opera o la corrispondenza personale del nonno, a costringere le case editrici a correggere eventuali note o postille e infine a distruggere lettere e documenti di e su Lucia dandoli alle fiamme. Sostenendo di voler difendere e proteggere la memoria della sua famiglia, ha compiuto gesti sconsiderati e gravissimi.
E così di Lucia si sa poco, anche se, a dire il vero, la sua storia si potrebbe tristemente riassumere in poche righe. E non per mancanza di documentazione, ma perché tre quarti della sua lunga vita Lucia li ha trascorsi rinchiusa in manicomio. Ha ventotto anni quando il mondo per lei cessa di esistere. Nel 1935 viene internata in un sanatorio alle porte di Parigi. La sua condizione peggiora, non parla, rifiuta il cibo, appicca il fuoco nella stanza in cui è ricoverata, scrive telegrammi ai morti, tenta il suicidio. Il padre è l’unico che va a trovarla, ma quando muore improvvisamente, nel 1941, Lucia legge la notizia su un giornale. Nessuno si è dato la pena di informarla. Dopo la morte del padre viene trasferita nel manicomio di Northampton, in Inghilterra, e lì dimenticata. La madre non andrà mai a trovarla e tantomeno il fratello. Riceverà una sola visita, nel 1977, da parte di un’ammiratrice di James Joyce che descriverà il luogo «lugubre e sinistro» e l’incontro con la figlia del grande scrittore come «una delle cose più tristi che mi siano capitate». Lucia, ormai anziana, parla con voce gutturale e fuma senza sosta. Tornata a casa, la donna decide di spedire a Lucia del materiale per scrivere: taccuini, penne, libri. Le sarà restituito insieme alla richiesta, da parte della direzione del sanatorio, di non inviare più nulla.
Cinque anni dopo, nel 1982, Lucia Anna Joyce muore. Ha settantacinque anni.
Dopo aver conosciuto la sua triste storia, non mi è più possibile guardare la fotografia di Lucia, così maestosa nel suo costume da sirena, senza commuovermi. L’avevo ritagliata per puro senso estetico, per la bellezza e la vitalità racchiuse in quello scatto. Non sapevo nulla di lei, e adesso, a ben guardare, mi accorgo che il suo sguardo non è come mi era parso, concentrato nell’esecuzione, ma è rivolto verso il precipizio.
Ho saputo però una cosa bella: Samuel Beckett ha conservato quella fotografia, nel suo portafoglio. L’immagine che egli aveva visto in movimento, nella grande sala del Bal Bullier, gli è rimasta accanto fino alla fine dei suoi giorni.
da Corpi speciali, di Francesca d’Aloja, La Nave di Teseo, 2020