Nelle ombre del domani è il titolo che lo storico olandese Johann Huizinga diede nel 1935 al suo libro più sconsolato. Il lettore italiano l’aveva conosciuto a lungo come La crisi della civiltà (Einaudi), ma proprio l’anno scorso – coincidenza felicemente sinistra – l’editore Nino Aragno ha voluto ripristinare il titolo originale; perché quelle ombre, che ci eravamo illusi fossero ormai ombre di ieri, si allungano di nuovo sul nostro orizzonte.
Grazie alla sua “diagnosi del disagio spirituale” Huizinga aveva ricostruito la sequenza genetica di un virus destinato a molte mutazioni, quello che gli epidemiologi della nuova leva hanno ribattezzato post-verità. Huizinga si stupiva di osservare nelle persone istruite, e specialmente nei giovani, una glaciale indifferenza rispetto al vero e al falso annidati nelle loro visioni del mondo: «Categorie quali “storia”, “finzione”, intese nel loro senso semplice e corrente, non vengono più distinte nettamente».
Da qui, suggeriva, viene l’enorme fortuna del concetto di mito (ma erano gli anni Trenta: oggi diremmo narrazione): «Ci inchiniamo di fronte a una figurazione, in cui gli elementi “desiderio” e “fantasia” sono notoriamente ammessi, che tuttavia è proclamata “storica” e viene elevata a norma di vita; di conseguenza, le sfere del sapere e della volontà si confondono irrimediabilmente».
Com’era stato possibile che delle persone intelligenti, che pure avevano i mezzi per distinguere verità e menzogna, si persuadessero a non farlo, per deliberato ottundimento? Huizinga dava la colpa all’idea pragmatista che il vero e il falso dipendano dall’utilità contingente. Ma non aveva in mente il pragmatismo dei filosofi americani, quanto il pragmatismo della volontà di potenza di Nietzsche: «Così le forze anti-razionalistiche di un intero secolo contribuirono a formare l’ampio fiume che avrebbe minacciato le dighe della cultura spirituale, ritenute ormai pressoché incrollabili. Georges Sorel, nelle sue Riflessioni sulla violenza, ricavò da tale rivolgimento conseguenze pratico-politiche, per trasformarsi dunque nel padre spirituale dei regimi totalitari di oggi».
Siamo nel 1935, anno secondo del Reich millenario, che non durò mille anni ma comunque abbastanza a lungo per imprigionare Huizinga. Tre anni dopo, un uomo raccoglie il suo testimone. Si chiama Paul-Louis Landsberg, è un filosofo ebreo-tedesco scappato dalla Germania appena Hitler ha conquistato il potere e approdato a Parigi nella cerchia personalista di “Esprit”. Nel 1938, a Bruxelles, tiene per i suoi sodali della rivista di Emmanuel Mounier una conferenza straordinaria che s’intitola Introduction à une critique du mythe.
La sequenza genetica che ricostruisce è la stessa di Huizinga – da Nietzsche al “mito rivoluzionario” di Sorel – ma Landsberg ha avuto il tempo di conoscere più a fondo la natura della Bestia, pronta ormai a scatenare la guerra in Europa, e ha potuto aggiornare e perfezionare la diagnosi: è un caso, diceva, di mitomania collettiva, in un senso affine a quello usato dagli psichiatri.
Trattandosi di un disturbo del sentimento della realtà, non ha senso appellarsi al vero e al falso, o illudersi di guarire il paziente a colpi di confutazioni e demistificazioni – quello che oggi chiameremmo debunking. Portava l’esempio dei Protocolli dei Savi di Sion: quando provi a mostrarne la falsità, ti obiettano che saranno pure storicamente falsi ma sono sostanzialmente e leggendariamente veri.
Non c’era scampo, come si vede, e infatti Landsberg non ebbe scampo: la Gestapo lo catturò nel marzo del 1943. Due mesi dopo, a Los Angeles, Thomas Mann avrebbe cominciato a scrivere il primo capitolo del Doktor Faustus. Il testimone invisibile passava ancora di mano, la sequenza genetica del virus della mitomania correva di nuovo da Nietzsche a Sorel, con il diavolo acquattato sullo sfondo, ma stavolta il lettore era accompagnato fino alla fine del tragitto, all’uscita di quei campi di concentramento di cui Landsberg, morto nel lager di Oranienburg-Sachsenhausen, aveva conosciuto solo l’ingresso: nelle ultime pagine del romanzo di Mann, gli abitanti di Weimar sono costretti dagli Alleati a sfilare davanti ai crematori, come un corteo di sonnambuli sbigottiti.
Ma queste sono ombre dei lontani anni Quaranta. Fortuna che siamo ancora negli anni Venti.