Tra domenica e lunedì sono scoppiate proteste, rivolte e agitazioni in 27 carceri italiane, in alcuni casi molto violente, che hanno provocato numerosi danni ad alcune strutture penitenziarie, evasioni (a Foggia) e sette morti nel carcere di Modena. La causa scatenante è stata la decisione del ministero della Giustizia, comunicata con una circolare che anticipa il decreto di prossima pubblicazione, di sospendere «dal 9 al 22 marzo 2020, i colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati, che verranno svolti a distanza, mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria e minorile o mediante corrispondenza telefonica, che può essere autorizzata oltre i limiti della normativa vigente».
«La notizia ha creato il panico – spiega a Linkiesta Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio carceri dell’associazione Antigone – perché i detenuti, già impauriti dalle notizie sulla diffusione del coronavirus, hanno pensato che l’epidemia fosse ormai incontenibile. Bisogna considerare che in carcere le informazioni non arrivano in modo completo, l’idea di non poter sapere cosa accade ai familiari che potrebbero essere coinvolti al di fuori ha sicuramente dato un grosso impulso alla rivolta». La preoccupazione, tra la popolazione carceraria, era già molto alta dalla settimana scorsa, quando è stato reso noto il ricovero in coma farmacologico di un agente penitenziario di 28 anni in servizio al carcere di Vicenza. La decisione di sospendere i colloqui ha fatto il resto, anche perché accompagnata da un’altra disposizione che ha ristretto i diritti dei detenuti: secondo il decreto di prossima pubblicazione, la magistratura di sorveglianza potrà sospendere, fino al 31 maggio 2020, la concessione dei permessi premio e del regime di semilibertà.
Secondo Aurora Matteucci, avvocato al foro di Livorno, il ministero ha sbagliato le modalità con cui i detenuti sono stati informati delle decisioni: «Per i detenuti si tratta di limitazioni molto rilevanti, probabilmente andavano avvertiti meglio, bisognava fargli capire che non sono gli unici a dover fare delle rinunce. Insomma, trattarli come cittadini. Invece la notizia ha creato confusione, non è stata capita, è possibile che in alcuni casi non sia stato detto che i colloqui sarebbero continuati grazie a Skype o altri strumenti».
Un funzionario dell’amministrazione penitenziaria, che ha accettato di parlare con Linkiesta sotto garanzia di anonimato, spiega che molti detenuti sono sicuramente preoccupati per la loro salute, ma questo non vale per tutti: «È naturale che la decisione del ministero per molti costituisce un pretesto: la popolazione carceraria è composita, ci sono persone pentite o consapevoli di dover scontare la propria pena per poi tornare a una vita normale, ma anche “cani sciolti” o delinquenti abituali che sfruttano questa situazione per cercare di ottenere l’indulto o l’amnistia. Non c’è dubbio però che le preoccupazioni per i colloqui siano fondate: il sistema Skype che utilizziamo è pensato per chi in condizioni normali non può tenere i colloqui di persona, come i detenuti che hanno famiglie residenti in una regione diversa. Ma è una percentuale bassa, e infatti molte strutture hanno sola postazione Skype: come fai ad assicurare tutti i colloqui se non hai i mezzi?». A dimostrazione di quanto la questione sia complessa, il procuratore aggiunto di Milano Alberto Nobili ha spiegato in un’intervista a Radio24 che i detenuti di San Vittore non hanno fatto riferimento all’emergenza sanitaria per motivare la loro rivolta: «Hanno colto l’occasione di questo momento particolare per rivendicare trattamenti carcerari migliori, a partire da una diminuzione delle presenze nelle carceri: a San Vittore, sono attualmente 1.200 detenuti, dovrebbero essercene 700».
Tra le preoccupazioni dei detenuti c’è anche quella delle condizioni igienico-sanitarie, già precarie in tempi normali. La Protezione civile ha confermato a Linkiesta di non avere ancora distribuito materiale sanitario negli istituti penitenziari che quindi fino a oggi, lunedì 9 marzo, hanno favorito contatti tra la polizia, gli educatori, le famiglie, gli avvocati e i detenuti senza mascherine e amuchina o disinfettanti simili. La protezione civile ha già stabilito la distribuzione di 100mila mascherine nelle carceri (ma non di amuchina) che avverrà nella giornata di martedì 10 marzo. Alcune strutture penitenziarie hanno provveduto da sole, ma l’iniziativa è lasciata ai singoli e non è uniforme su tutto il territorio nazionale.
Questa mancanza di requisiti di prevenzione della diffusione del coronavirus si aggiunge al sovraffollamento. Secondo il rapporto dell’associazione Antigone sono 60.439 i detenuti presenti nelle carceri italiane al 30 aprile 2019. Quasi 10.000 in più dei 50.511 posti letto ufficialmente disponibili – cui si devono sottrarre gli eventuali spazi momentaneamente in manutenzione. Nel 2006, dopo l’ultimo indulto, la popolazione carceraria era di 39.005 persone. Michele Usuelli, consigliere regionale in Lombardia e membro di Più Europa/Radicali, ha visitato uno degli istituti penitenziari teatro delle rivolte, quello di Pavia: «Ho visitato il carcere il 25 febbraio, il giorno dopo l’istituzione della zona rossa a Codogno. L’istituto di Pavia ha una capienza di 518 detenuti, e quel giorno ne ospitava 730: nella cella ordinaria, che misura 9 metri quadrati e dovrebbe essere assegnata a 2 detenuti, c’era spesso una terza persona, in una brandina buttata a terra. Non si rispettavano le regole per una detenzione dignitosa, figurarsi le regole della minima distanza di un metro tra le persone per evitare i contagi. Le carceri sono luoghi sovraffollati, bombe a orologeria pronte a esplodere in questi casi. Per non parlare del via vai: in una struttura c’è contatto tra agenti, personale, educatori, avvocati e parenti dei detenuti. Tutte persone che hanno una loro vita all’esterno dell’istituto e che potrebbero contrarre il virus e poi portarlo all’interno».
Insomma, non era impossibile prevedere rivolte generalizzate in una situazione di panico diffuso, generato anche dalla gestione confusionaria del governo, che ha fatto filtrare la bozza del decreto che istituiva la zona rossa in Lombardia e altre 11 province (poi diventate 14) sabato pomeriggio. I detenuti guardano la televisione, e domenica mattina hanno messo insieme i puntini: un agente penitenziario in coma, il nord Italia in quarantena, la sospensione dei colloqui e dei permessi premio, la mancanza di materiale sanitario in carcere.
In molti propongono di ricorrere più rapidamente alle misure alternative alla pena, come l’affidamento in prova ai servizi sociali o la detenzione domiciliare, previsti dall’articolo 47 della legge sull’ordinamento penitenziario. Per alleggerire la situazione, spiega Riccardo Polidoro, avvocato al foro di Napoli e responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane, basterebbe applicare le regole vigenti: «È già possibile ricorrere a pene alternative, il problema sono, come sempre, i lunghi tempi della giustizia. Il Tribunale di Sorveglianza, che si occupa delle decisioni in materia di detenzione, è sotto organico e può impiegare 7 o 8 mesi per emettere un’ordinanza, a volte anche di più. Se si considera che in Italia 8.682 detenuti scontano una pena residua inferiore a un anno, si comprende facilmente il paradosso: le persone terminano la loro pena prima di vedere esaminata dalla magistratura la propria richiesta di misure alternative al carcere». Ecco perché l’Unione camere penali ha pubblicato una nota in cui chiede al governo di intervenire subito in tal senso: «L’amnistia e soprattutto l’indulto sono le strade da seguire ed occorre immediatamente rafforzare il personale dei Tribunali di Sorveglianza – magari con i magistrati che in questo periodo non terranno udienze – per verificare quanti detenuti (e non sono pochi) hanno diritto ad avere gli arresti domiciliari ovvero la misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, anche aumentando, con decreto legge, il tetto della pena da scontare per accedere al beneficio».
L’esecuzione alternativa della pena è in effetti uno dei punti deboli del sistema penale italiano, che non ha i mezzi appropriati per affrontare la mole di lavoro. Tuttavia, spiega a Linkiesta Monica Amirante, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Salerno, aumentare il numero di giudici non risolverebbe il problema: «Il vero limite è la carenza di personale amministrativo e di mezzi, circostanza che rallenta ulteriormente i procedimenti. Per intenderci, non sono i magistrati a depositare gli atti, ma i cancellieri o altri funzionari di grado superiore: a Salerno ne abbiamo 2, ne servirebbero 4. Esiste poi un altro problema, che forse si sottovaluta. Il Tribunale di Sorveglianza non decide sulla colpevolezza dell’imputato, ma sul modo migliore per fargli scontare la pena. Ha bisogno, quindi, di conoscere una serie di situazioni soggettive nel momento in cui deve adottare un provvedimento di scarcerazione. Quando arriva una richiesta di concessione dei domiciliari, per esempio, bisogna valutare se il contesto familiare in cui il detenuto vorrebbe tornare è adatto, in che rapporti è con la moglie e con i figli. Di questo si occupa l’ufficio di esecuzione penale esterna, anch’esso sotto organico. Spesso le decisioni sono lunghe perché è tutta la macchina a essere in difficoltà»
Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha spiegato che i provvedimenti presi dal governo per gli istituti penitenziari hanno «la funzione di garantire proprio la tutela della salute dei detenuti e tutti coloro che lavorano nella realtà penitenziaria. Deve essere chiaro che ogni protesta attraverso la violenza è solo da condannare e non porterà ad alcun buon risultato». Su questo tema il ministro Bonafede riferirà mercoledì pomeriggio al Senato con un’informativa urgente.