L’empatia è il punto di partenza di qualsiasi relazione genuina ed è il reagente che crea una comunità di interessi e la guida verso azioni concrete. In un mercato in cui la fiducia è la moneta, una marca per avere successo e costruire il proprio valore deve essere naturalmente empatica, ovvero saper ascoltare per entrare in sintonia con i propri clienti e condividere con loro la propria visione del mondo.
Creare contenuti e messaggi capaci di «risuonare» nella vita delle persone è la vera sfida. Essere empatico è però un carattere particolare; mentre tutte le altre caratteristiche di cui parleremo si riferiscono di fatto ad attributi che il brand ha, l’empatia è qualcosa che – nella migliore delle ipotesi – si può solo offrire, senza nessun obbligo da parte dei destinatari ad accettare questo tipo di relazione. Significa insomma mettersi nei panni dell’altro e realmente identificarsi con la sua situazione e i suoi bisogni.
Per una marca essere empatica vuol dire inoltre creare profili ideali di clienti che possono essere utilizzati per le finalità più diverse: da migliorare le performance di targeting di una particolare campagna, a validare un particolare servizio/offerta oppure a testarlo prima di un rilascio.
In sintesi si tratta di identificare ciò che per ciascuno ha realmente valore e concentrarsi su questo anziché dare priorità all’individuazione di fattori di spinta commerciale che, pur aiutando a vendere di più, possono esporre al rischio di abbassare il percepito della marca.
Creare contenuti con l’obiettivo di suscitare empatia ha inoltre la finalità di stimolare le persone e renderle più attive portandole a condividere, a rispondere, a farsi advocate del nostro messaggio di marca contribuendo nel tempo a ridurre i costi di acquisizione.
Gli utenti che oggi vivono sulle piattaforme digitali non sono solo interessati a consumare passivamente contenuti, ma sono alla ricerca di messaggi capaci di portare a un qualche cambiamento pratico nella loro vita di tutti i giorni – a livello individuale e di società allargata nella quale vivono.
Si tratta per certi versi di un processo inverso rispetto a quello del marketing tradizionale; questo si basava infatti sul modello di copertura e frequenza (reach & frequency) che concentrava gli sforzi di marketing da un lato sulla quantificazione dei soggetti da raggiungere e dall’altro sulla definizione della giusta frequenza di esposizione al messaggio per garantire allo stesso tempo efficacia ed efficienza degli investimenti.
La frequenza, tuttavia, si basa su un concetto molto intrusivo, ovvero l’interruzione: le persone stanno per esempio guardando uno show alla TV e per raggiungere un particolare punto di frequenza il programma viene interrotto e viene mandato in onda uno spot. Per anni – e per molti versi ancora oggi – le marche hanno speso miliardi con il solo obiettivo di creare «attrito» nell’esperienza dei consumatori a cui volevano inviare il proprio messaggio. P&G ha costruito su questo modello il suo impero: dal lancio del prodotto agli investimenti incrementali in pubblicità che portavano a quote di mercato crescenti, da cui poi maggiori investimenti e così via.
Oggi, tuttavia, le marche non possono più fondare il proprio sistema di comunicazione sull’interruzione all’interno dei diversi canali perché il controllo è ora nelle mani dei singoli: sono loro che scelgono se e quando accendere la TV e sono loro che passano dal filtro di una app ai suggerimenti di un sito non appena il valore percepito nell’esperienza di navigazione non è più soddisfacente.
È necessario quindi passare da interruzione a interesse, ovvero puntare sulla creazione di valore e significato per gli individui che vogliamo raggiungere nel momento in cui entriamo in relazione con loro. Il paradigma del valore passa così da copertura e frequenza a copertura ed empatia, puntando cioè a creare contenuti ed esperienze così potenti e reali che le persone vorranno entrare nel discorso di marca, partecipare al suo sviluppo e idealmente condividerlo generando una viralità sana e ricca di senso senza essere costrette da nessuna interruzione.
Il primo passo verso questo cambiamento di paradigma lo ha imposto, ormai quasi vent’anni fa, la nascita dei motori di ricerca e ovviamente di Google in particolare: i search engines limitano l’attrito, non lo generano, permettendo agli utenti di «chiudere» la distanza tra un bisogno e la sua realizzazione immediata. Così facendo Google ha dato avvio al processo di ribaltamento della tradizionale asimmetria informativa tra marche e clienti – un processo che ha fatto delle persone i soggetti detentori del potere.
Se ho un bisogno informativo ora posso chiedere a Google e quelle interruzioni che una volta venivano presentate come innocui «consigli per gli acquisti» diventano sempre di più fastidiose rappresentazioni commerciali di istituzioni di cui ci fidiamo sempre meno.
Secondo alcune ricerche quasi l’89 per cento delle pubblicità televisive viene semplicemente ignorato perché lo spettatore guarda il proprio telefonino o il proprio tablet mentre quelle immagini vengono mandate in onda.
Attenzione: questo non significa che la pubblicità classica non abbia più motivo di esistere in un mondo post digitale; ci sarà infatti sempre bisogno di strumenti di massa capaci di raccogliere nel breve periodo un grande livello di interesse ma, come abbiamo detto all’inizio del libro, questo deve essere visto più come il punto di partenza del nostro lavoro e non la sua realizzazione finale: lo spot TV, dunque, come porta verso un mondo di contenuti, esperienze e relazioni capaci di far vivere concretamente la marca, e non come sua rappresentazione esaustiva.
da “Branding By Design. Gli otto caratteri della marca post digitale”, di Giuseppe Mayer, Egea 2020 (Euro 24,00)