«La discussione sulla riapertura deve entrare ora in una fase concreta, mettendo in fila dati, risorse, settori e territori per vagliare le proposte su come gestire la ripartenza graduale nel mondo del lavoro, dalle fabbriche ai negozi, dai bar agli uffici». Francesco Seghezzi, presidente della Fondazione Adapt, avanza l’idea di partire dai numeri dettagliati della situazione attuale per capire davvero come riaccendere gradualmente il motore del Paese. Filiera per filiera, azienda per azienda. Proponendo poi una «deroga d’emergenza sui contratti a termine rispetto alle norme del decreto dignità», in modo da evitare altri disoccupati, oltre che «un investimento sulla riqualificazione dei tanti lavoratori che oggi sono fermi in cassa integrazione. Pensando pure a come possano essere impiegati in altre imprese essenziali aperte dello stesso territorio. Per evitare situazioni paradossali in cui da una parte c’è assenza di manodopera, come sta accadendo per l’agricoltura, e dall’altra milioni di persone in cassa».
Di quali dati abbiamo bisogno per ripartire?
Serve avere un panorama chiaro e realistico, senza più astrazioni, dell’impatto che ha avuto la decisione di chiusura delle aziende. Bisogna capire quante persone sono a casa con un sostegno al reddito, in quali settori e in quali territori. Nello stesso settore della ristorazione, ci sono alcuni che hanno chiuso del tutto, altri che fanno il delivery.
Chi può fare una valutazione del genere?
Sicuramente l’Istat, con indagini a campione, può fornire una stima di quanti sono i lavoratori attivi e in quali settori sono occupati, e quanti invece sono a casa. Un aiuto potrebbe venire anche dalle domande arrivate all’Inps per disoccupazione e cassa integrazione. Un quadro di questo tipo servirebbe sia per prevedere quante risorse stanziare e dove, ma anche per capire quanti sono i negozi che potrebbero non aprire mai più, senza aspettare di vedere la serranda abbassata.
E chi lavora da remoto?
Serve una stima vera anche di quanti sono quelli che stanno lavorando da remoto. E anche in questo l’Istat può fare una indagine campionaria, visto che non abbiamo dati amministrativi. Chi sta lavorando da remoto deve poterlo continuare a fare e deve essere l’ultimo che riapre o che torna in azienda. Così si riducono le presenze sui luoghi di lavoro, senza che resti tutto chiuso. La gradualità nella riapertura deve essere a questo livello di dettaglio all’interno dei settori, dei territori e delle singole aziende. Incrociando questi dati, ovviamente, con quelli sanitari: se il fattore di contagio R0 si riduce prima in alcune aree, si devono fare discorsi territoriali e non solo nazionali. Non ci sarà un giorno in cui ricomincerà tutto e ovunque. Non bastano più quindi solo i codici Ateco per ragionare su cosa aprire e cosa no.
Ma l’impalcatura della legislazione sul lavoro attuale è adatta a una situazione di crisi del genere?
Con il decreto dignità, il rischio oggi è che tanti contratti a termine non saranno rinnovati per paura della causale. In una situazione di incertezza, il tipo di investimento richiesto da un contratto a tempo indeterminato potrebbe non essere adatto. Si potrebbe pensare quindi a una deroga, introducendo una causale legata all’emergenza o togliendo momentaneamente le causali. Ma si potrebbe stabilire anche una deroga nella contrattazione collettiva. Attenzione, però: questo non significa flessibilizzare al massimo, ma introdurre un momento eccezionale di flessibilità che accompagni la ripresa. Le relazioni industriali in un momento di crisi devono avere molto più spazio rispetto alla norma nazionale. Bisogna coinvolgere associazioni datoriali e sindacati.
C’è chi propone anche la reintroduzione dei voucher.
Se ne può discutere senza tabù. In un momento di difficoltà e incertezza, in settori come la ristorazione o il turismo il rischio è una forte diffusione del lavoro irregolare. Per evitarlo si potrebbe pensare a reintrodurre i voucher, limitandoli magari ad alcuni settori. Così come a un allargamento temporaneo del lavoro a chiamata. Ovviamente tutelando diritti e salari: non può essere un gioco a somma negativa per il lavoratore, ma un’opportunità.
E chi è in cassa integrazione che farà?
Finora abbiamo visto solo un approccio di tipo assistenziale. Ora serve parlare di politiche attive. È più facile, tra l’altro, che ci prestino i soldi se non sono indirizzati solo all’assistenza ma anche all’investimento sul capitale umano. Per chi è in cassa integrazione, questo periodo va valorizzato con formazione e riqualificazione, che si può fare a distanza. Serve riattivare le persone, perché prima o poi i soldi finiranno. Magari anche capendo come questi lavoratori possano essere impiegati periodicamente in altre imprese di filiere aperte nello stesso territorio, per non incorrere nel paradosso della carenza di lavoratori in alcune filiere e milioni di persone in cassa a casa. Come sta accadendo per l’agricoltura.
I cassintegrati possono essere reimpiegati nelle filiere essenziali come quella agricola?
Certo, si può pensare a misure del genere. Se serve manodopera e i raccolti sono a rischio in un settore essenziale come quello alimentare, i centri per l’impiego devono poter proporre questi lavori, anche ai percettori del reddito di cittadinanza. Lo stesso discorso si dovrà fare con quello che sarà il reddito d’emergenza. Se nel breve periodo uno strumento del genere può limitare i problemi sociali, il rischio è che nel lungo periodo possa invece alimentarli.