Luigi Di Maio ha promesso di portare il tema dei paradisi fiscali Ue nel tavolo delle trattative con Bruxelles. Ma non si capisce se sia una mossa solo per spaventare i Paesi Bassi e ottenere in cambio gli eurobond, o se voglia risolvere davvero la questione Solo all’Italia il dumping fiscale costa tra i cinque e gli otto miliardi di dollari all’anno di mancate entrate (Antitrust). Dumping è il solito anglicismo che rende la materia ancora più confusa. Per semplificare, se si può in questo argomento, parliamo di quegli Stati che adottano tassazioni favorevoli mantenendo più basse della media le aliquote sugli utili d’impresa e la pressione fiscale Il modo migliore per attrarre le multinazionali e i patrimoni dei milionari degli altri Paesi europei.
Secondo un rapporto del Parlamento europeo del 2019 sono sette gli Stati dell’Unione che hanno delle politiche fiscali aggressive per attirare i capitali. Sì ci sono i Paesi Bassi e il Lussemburgo. Ma anche Belgio, Cipro, Ungheria, Irlanda e Malta. Questo succede perché gli Stati non si sono mai messi d’accordo per creare un sistema fiscale comune europeo, ma hanno preferito mantenerne 27 differenti che si fanno concorrenza tra loro. Il vero problema non è tanto l’aliquota normale ma quella effettiva, cioè la quota concreta che si paga sul reddito imponibile al netto di scaglioni e altre agevolazioni. Secondo uno studio commissionato dal gruppo dei Verdi al Parlamento europeo, nel 2015 il Lussemburgo aveva un aliquota solo al 2 per cento, l’Ungheria al 7,5 per cento e i Paesi Bassi al 10 per cento. Contro il 30 per cento dell’Italia.
Questa concorrenza sleale è il motivo per cui secondo l’Aggressive tax planning indicators della Commissione Ue il Lussemburgo è riuscito nel 2017 ad attirare investimenti esteri diretti pari a oltre il 5.760 per cento del suo prodotto interno lordo e l’Italia solo il 19 per cento. Lo stesso dato sproporzionato vale per i Paesi Bassi che ha attratto capitali pari al 535 per cento del suo Pil o l’Irlanda pari a 311 per cento. Questi tecnicismi di difficile comprensione si possono tradurre con un numero facile facile: 170 miliardi di euro. Ovvero le entrate che ogni anno i Paesi membri non incassano a causa del dumping fiscale, come ha ricordato il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki, sabato in un intervento pubblicato su Repubblica.
Proprio il Polish Economic Institute a gennaio ha pubblicato un documento sull’iniquità fiscale dell’Unione presentato al Forum dell’Economia di Davos. in cui si legge che i Paesi Bassi e il Lussemburgo sono il primo e il secondo Stato al mondo per numero di «investimenti fantasma». Tradotto: flussi di denaro che passano attraverso delle filiali create ad hoc solo per pagare le imposte in quel Paese. E tra il 2000 e il 2017 le entrate delle tasse pagate dalle grandi aziende sono calate di 8 punti percentuali in tutta l’Unione. Nel rapporto si legge che i sistemi fiscali degli Stati Ue hanno fatto una «corsa verso il basso» diminuendo negli anni la tassazione di multinazionali e milionari. Per finanziare questa perdita gli Stati aumentano le tasse a chi già paga molto o si indebitano. Come l’Italia.
Cosa ha fatto finora l’Unione europea? Come con la sanità, Bruxelles può fare poco perché le politiche fiscali sono di competenza nazionale. Chiusa questa porta, la Commissione Ue però ha provato a risolvere il problema dalla finestra: punendo la concorrenza sleale. Moltre volte dal 2014 al 2019 la Commissaria Ue alla concorrenza, Margrethe Vestager ha multato le grandi multinazionali che hanno siglato degli accordi vantaggiosi con il Fisco di uno Stato Ue per trasferire la loro sede in cambio di tasse basse per un certo periodo di tempo. La Commissione ha condannato il tax ruling concesso dal Lussemburgo ad Amazon nel 2003 (uno dei 548 accordi fatti dal 2002 al 2010, scoperti grazie allo scandalo LuxLeaks), quello dei Paesi Bassi a Starbucks nel 2007 o dell’Irlanda ad Apple nel 2014.
Anche il Parlamento europeo si è mosso. Nel febbraio del 2019 un comitato speciale dell’Eurocamera, il Tax3, ha stilato una tabella di marcia dettagliata per garantire una tassazione più equa ed efficace e per affrontare i crimini finanziari. Tra le proposte c’era la creazione di una forza di polizia finanziaria europea e un’autorità Ue di antiriciclaggio. Il report però mostrava il vero punto debole:la mancanza di volontà politica degli Stati membri dentro al Consiglio di combattere il fenomeno dell’elusione fiscale.
Dopo le indagini giornalistiche sui Panama papers del 2016 e i Paradise papers del 2017, l’Unione europea ha stilato una black list di 17 Stati extra Ue che non rispettano tre criteri: la trasparenza fiscale, una tassazione equilibrata e soprattutto non applicano le norme sul trasferimento dei profitti da un paese all’altro che ha stabilito l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Tra i Paesi c’erano alcuni paradisi fiscali citati nei film come le o Panama, ma anche delle sorprese come Corea del Sud ed Emirati Arabi Uniti.
A febbraio del 2020 l’Ecofin, l’organo in cui siedono i ministri delle Finanze dei 27 Paesi Ue ha aggiornato la lista che conteneva solo otto Stati, inserendone altri quattro tra cui le Isole Cayman britanniche e le Seychelles, ovvero i territori d’Oltremanica del Regno Unito, formalmente fuori dall’Unione dopo la Brexit. Tutto bellissimo, con i Paesi extra Ue, ma quelli dentro l’Unione? Della questione se ne sta occupando il commissario all’Economia Paolo Gentiloni che sta lavorando a un accordo internazionale con l’Ocse e il G20 per stabilire una tassazione minima comune. Sarebbe il primo passo per imporre un’armonia fiscale comune.