Continua la serie di articoli scritti dal think tank Tortuga in collaborazione con i data scientist di Buildnn, con l’obiettivo di analizzare, con numeri e parole chiare, la diffusione del Covid-19 e la gestione del Sistema Sanitario Nazionale. Tutte le rielaborazioni e i dati sono disponibili su una piattaforma Open Source creata.
In queste settimane l’opinione pubblica continua a interrogarsi sulle modalità di risposta alla diffusione del coronavirus e sul livello di preparazione delle singole nazioni. Alla base dei piani nazionali e internazionali per la gestione di disastri – biologici e non – vi è un’accurata valutazione dei rischi di ogni tipo di catastrofe. Questa viene stilata periodicamente da ogni Stato sotto forma di documenti che prendono il nome di National Risk Assessment (Nra). Gli Nra mostrano a quali rischi un paese ritiene di essere esposto e le loro relative priorità.
In Italia, il più recente documento sulla valutazione nazionale dei rischi include il rischio sismico, idrogeologico e altri, ma non quello epidemiologico. Una mossa decisa sulla base di una valutazione seria? No. Basti pensare che l’insorgenza di malattie infettive nel mondo è cresciuta fortemente negli ultimi anni. Com’è possibile vedere nella mappa sottostante, tra il 1980 e il 2013 sono stati registrati 12.012 outbreaks, con 44 milioni di casi nel mondo, nessun paese escluso. Per outbreak si intende il repentino e insolito aumento del numero di persone affette dalla stessa malattia infettiva in un arco di tempo definito.
Tuttavia, questa miopia non sembrerebbe un difetto solamente italiano. I dati dal sondaggio sulla percezione del rischio globale del World Economic Forum, somministrato annualmente a circa 1000 tra aziende private, Ong, accademici, esponenti delle istituzioni, mostrano che nell’ultima decade le malattie infettive sono risultate tra i primi cinque rischi percepiti solo una volta, nel 2015, anno delle epidemie di Ebola e MERS. Ma già l’anno successivo era al di fuori dei primi dieci.
Questa difformità nella valutazione del rischio tra anni vicini e in concomitanza con gravi episodi epidemici suggerisce quanto importante sia la percezione del rischio, sia nelle istituzioni, sia tra i cittadini. Nelle prime, determina il livello di programmazione all’evenienza del rischio, nei secondi invece determina il comportamento di fronte a eventuali misure per il controllo dei contagi.
Soltanto pochi mesi fa, una simulazione internazionale contro un’ipotetica emergenza sanitaria globale aveva, però, mostrato che nessuno stato fosse preparato. Una ricerca del 2018 sostiene, infatti, che a eventi rari corrisponda una generale mancanza di preparazione. Più raro è l’evento, maggiore l’impreparazione, e peggiori le scelte delle istituzioni e degli individui.
Questa impreparazione sembrerebbe sostanzialmente indipendente dalla consapevolezza scientifica del rischio. L’Oms, infatti, aveva già indicato tra le più rischiose patologie trasmissibili una “malattia X”, che ricalcava, in maniera quasi premonitrice, i tratti distintivi del Covid-19.
Non sono solo le istituzioni ad aver sottostimato il rischio epidemico, anche i cittadini. E soprattutto in questo secondo caso, il ruolo delle istituzioni risulta fondamentale. L’Oms ha, infatti, emanato delle linee guida sulla comunicazione del rischio. Queste evidenziano come il problema non sia solamente il contenuto del messaggio ma anche il tempismo, il mezzo di comunicazione e colui che comunica. Ad esempio, se il livello di fiducia nel governo è molto basso, i cittadini tenderanno ad avere scarsa attenzione alle comunicazioni rilasciate dagli esperti sanitari del governo.
Uno studio di Rolison e Hanoch, analizzando le risposte di un campione di cittadini americani a domande sull’Ebola, scopre che gli individui più informati sull’epidemia sono meno preoccupati di contrarre il virus e percepiscono un maggiore controllo sulle misure di prevenzione. Allo stesso tempo, vedono il contrarre il virus come un problema più grave rispetto alla loro controparte meno informata.
Questi risultati ci suggeriscono che una comunicazione adeguata durante un’epidemia può essere efficace nell’informare il pubblico sui rischi e sulle misure di prevenzione, senza pericoli di sottostima della gravità della malattia. La preparazione di fronte agli eventi epidemici deve essere, quindi, necessariamente multidimensionale e il sistema sanitario è soltanto una parte di un puzzle più grande.
Il perfetto mix per affrontare tali rischi dovrebbe, quindi, basarsi su due cardini: la rapidità della risposta e il livello di preparazione sottostante. Che tutti gli stati, inclusa l’Italia, fossero poco preparati in tema di controllo e prevenzione delle epidemie, lo aveva già stabilito il Global Health Security Index, che li classifica a seconda di alcune variabili relative al sistema sanitario e alla preparazione al rischio epidemiologico.
Il nostro paese nel 2019 si trovava al 31° posto su 195. Tra le variabili di nostro interesse, l’Italia era quarantacinquesima in prevenzione e cinquantunesima nella capacità di risposta. Per quanto riguarda il rischio epidemiologico, la preparazione passa necessariamente per adeguati investimenti nel sistema sanitario, come avevamo scritto in un nostro precedente articolo.
Ma tutto questo non basta. Occorre analizzare anche i meccanismi di risposta al rischio, che permettono alle istituzioni, e più in generale a tutti gli attori coinvolti nel contrasto all’epidemia, di reagire immediatamente secondo protocolli condivisi. Anche questi hanno un costo, perché occorre progettarli e tenerli aggiornati.
Dal bilancio dello stato abbiamo isolato alcuni tra i programmi che direttamente o indirettamente riguardano la prevenzione e la risposta al rischio, quello epidemiologico non è neppure citato. Nel programma del MEF “Interventi per pubbliche calamità” ad esempio, le uniche voci sono “ricostruzione” e “prevenzione del rischio sismico”.
Per quanto riguarda il ministero della sanità (il cui bilancio non include gli stanziamenti del Sistema Sanitario Nazionale, di competenza regionale) le uniche spese per il contrasto alle epidemie riguardano le malattie animali.
Inoltre, come si evince dall’analisi condotta sui ministeri, lo Stato investe maggiormente nella risposta al rischio, ovvero nei programmi di Protezione Civile e post-emergenziali, piuttosto che nella prevenzione e preparazione. Ma è proprio la prevenzione a garantire una risposta proattiva più che reattiva, minimizzando i danni di un’emergenza. Questa prontezza di risposta modifica direttamente e sostanzialmente le conseguenze di un’emergenza epidemica.
L’impreparazione a una pandemia non è una pecca solo italiana, ma il nostro paese sembra aver mal gestito la comunicazione durante l’emergenza. Basta comparare il caos creato da conferenze stampa non seguite da decreti, rispetto alle spiegazioni sulle dinamiche del contagio del governo tedesco. Come abbiamo già ricordato, la qualità delle istituzioni conta, soprattutto in emergenza.