Lavarsene le maniIl governo Conte ha gettato la mascherina

La Lombardia la rende obbligatoria, Borrelli dice in diretta che non serve, Speranza annuncia che sarà essenziale. Ma la sua diffusione ha un impatto sociale molto più grande di quel che pensano gli epidemiologi

La scorsa settimana l’Austria ha annunciato la decisione di rendere obbligatorio l’uso delle mascherine all’interno dei supermercati. Simili imposizioni, in Europa, sono già state adottate in Repubblica Ceca, Bosnia e Slovacchia, dove il 24 marzo il nuovo governo ha giurato in pieno assetto anti-epidemia (la foto ha fatto giustamente il giro del mondo). In Spagna se ne discute da giorni e anche negli Stati Uniti, dove il principale esperto, Anthony Fauci, ha ammesso sinceramente una resistenza dovuta al timore che vengano a mancare al personale sanitario.

Quanto all’Italia, ricapitolando quanto comunicato ufficialmente dalle autorità competenti soltanto nelle ultime 48 ore, il catalogo è questo: sabato la Lombardia ha emesso un’ordinanza che ne impone l’uso come condizione per poter uscire di casa; lo stesso giorno il capo della protezione civile, Angelo Borrelli, ha dichiarato in conferenza stampa che lui non ne fa uso, perché tanto basta mantenere la distanza; il giorno seguente, sul Corriere della sera, il ministro della Sanità, Roberto Speranza, ha illustrato niente di meno che un piano in cinque punti «per il dopo», il primo dei quali recita: «Promuovere l’utilizzo diffuso di mezzi di protezione individuale». Indovinate quali? Ma le mascherine, naturalmente. «Purché – aggiunge il ministro, che in questi mesi oltre all’epidemiologia dev’essersi dedicato parecchio anche alla psicologia – si eviti di usare quelle con il filtro, riservate al personale sanitario».

È ormai chiaro a tutti che sulla questione delle mascherine, come su pressoché ogni altra questione legata al Covid-19, finora non ci ha capito quasi niente nessuno, nel mondo. Non si può pretendere che sia proprio il governo Conte, pertanto, a dirimere controversie che ancora oggi dividono la comunità scientifica planetaria. Ci si accontenterebbe del fatto che non comunicasse, sullo stesso delicatissimo argomento, due o persino tre posizioni perfettamente contraddittorie.

Non si tratta nemmeno di pretendere chissà quale strategia. Tutti i governi del mondo hanno fin qui navigato a vista e commesso innumerevoli errori. Si tratterebbe solo di non prendersi in giro. Il fatto che tanti medici ancora oggi non abbiano mascherine adeguate è gravissimo. Ma ancora più incredibile è che negli stessi giorni si dica che sono indispensabili in Lombardia, inutili nel resto d’Italia, ma comunque fondamentali per «il dopo». È difficile pretendere disciplina e rigore dai cittadini, nel momento in cui le stesse autorità dicono loro tre cose diverse, accreditando peraltro il sospetto che sulla questione della fornitura delle mascherine nessuno dica tutta la verità, e la confusione sia anzitutto figlia dell’imbarazzo, per usare un eufemismo.

Da questo punto di vista, le parole di Borrelli sono particolarmente sbagliate, perché alimentano ulteriore confusione e sfiducia su uno strumento che assai verosimilmente, in Italia come nel resto del mondo, è destinato ad avere un ruolo fondamentale. E che tuttavia, diversamente da quanto accade in molti paesi asiatici, sappiamo sin d’ora che incontrerà molte resistenze, di carattere sociale, culturale, antropologico.

Come ha scritto sabato Gillian Tett sul Financial Times, «indossare la mascherina non è qualcosa che attiene soltanto al comportamento individuale; ha anche delle conseguenze sociali». È un discorso con cui dovremmo avere già familiarizzato, dopo tante discussioni sui runner, le passeggiate in famiglia e le partite a pallone, ma che assume una valenza particolare in questo caso. Lì infatti si trattava di non fare qualcosa che ci piace (correre, passeggiare, giocare a pallone), qui di fare qualcosa che non ci piace affatto (girare sempre con bocca e naso coperti), il che è tutto un altro paio di maniche. È qualcosa che chiama in causa un intero sistema di valori, abitudini, sensibilità personali e sociali. Tutte cose destinate a cambiare rapidamente.

Già oggi, nota Tett, «non indossare una mascherina è quasi un motivo di vergogna in paesi come il Giappone». Del resto, in Asia l’esperienza della Sars, insieme con tradizioni culturali assai più attente al ruolo del singolo nella società, hanno ampiamente preparato il terreno. Ma anche noi, come già notato da queste parti, ci stiamo alquanto orientalizzando, dando prove insperate di disciplina, rigore e senso di comunità. È un vero peccato che non si possa dire altrettanto del governo.

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