Il discorso economico più frequente mette a confronto i maggiori Paesi seguendo lo schema del tasso di crescita dell’economia, del deficit, e del debito pubblico. (Una volta c’era anche l’inflazione, ma ora non c’è più). Dallo schema emerge che, se l’economia cresce poco e se il debito è elevato e crescente, non possono che sorgere dei giustificati dubbi sulla solvibilità dello stato oggetto di questa classificazione. Dubbi che prendono la forma dello spread (il differenziale di interesse sui titoli del debito). L’Italia in queste classifiche finisce all’ultimo posto o al penultimo, dipende se si inserisce o meno la Grecia nello schema.
Sono semplificazioni che diventano virali perché sono semplici e perché fanno leva sull’idea che i numeri siano “oggettivi”. Anni fa con la “discesa in campo” di Silvio Berlusconi l’approccio per così dire numerico venne prepotentemente fuori. Si richiamavano i numeri a raffica, perché così si mostrava (o si credeva, ma il nuovo approccio per qualche tempo aveva funzionato) una conoscenza che i politici di professione non potevano avere perché, non provenendo dalla società civile, non avrebbero potuto avere senso “pratico”. L’assunto implicito era che l’uomo pratico conosce il mondo in modo oggettivo, il quale mondo si manifesta in numeri, numeri che lui conosce a fondo.
I Paesi, secondo questo modo di classificare, sono tutti eguali salvo nei numeri di crescita, deficit e debito. È come se la loro storia possa essere risucchiata in poche variabili di contabilità nazionale. Così non è, i Paesi hanno, infatti, una “personalità” anche in campo economico, si tratta di farla emergere. Se si riuscisse nell’operazione, si capirebbero meglio le mosse dei diversi Paesi nella crisi del coronavirus. Esiste da qualche tempo un campo di ricerca detto dei “modelli di crescita”. Usando questo approccio si possono meglio comprendere le decisioni che oggi sono prese:
Il Regno Unito è trainato dalla finanza, dall’immobiliare, e, soprattutto, dal consumo interno. Ergo, per far fronte al coronavirus la politica economica migliore è quella di garantire i consumi. Ed è ciò che sta facendo. Inoltre, ha uno stato sociale in grado di assorbire gli choc. La Germania è trainata dalla domanda estera e quindi sono le imprese esportatrici che vanno protette in caso di crisi. Il taglio delle ore di lavoro e la garanzia degli assetti patrimoniali è ciò che sta facendo. Inoltre, ha uno stato sociale in grado di assorbire gli choc.
Gli Stati Uniti non sono trainati come la Germania dalle esportazioni, ma, come il Regno Unito, dai consumi interni. A differenza di quest’ultimo però non hanno uno Stato Sociale per assorbire gli choc. Gli choc nel caso statunitense sono assorbiti dalla flessibilità del mercato del lavoro – via la variazione dell’occupazione e dei salari. In condizioni di crescita normali le spese delle famiglie statunitensi sono maggiori dei salari percepiti grazie alle diverse forme che assume il credito. Inclusi i debiti accesi per usufruire dei servizi sanitari.
Perciò in caso di crisi, negli Stati Uniti, e a differenza dell’Europa Occidentale, i salari e la componente creditizia, in breve la combinazione su cui regge il grosso dei consumi, non sono bilanciati dallo Stato Sociale. Segue che in caso di crisi il sistema statunitense è salvato attraverso l’intervento in campo finanziario, si noti non per un complotto dei “poteri forti”, ma perché questo continui a erogare credito alle famiglie che nell’aggregato hanno un reddito inferiore per effetto della crisi.
Quindi, e a differenza del Regno Unito dove l’intervento in caso di choc è sui consumi, e della Germania, dove l’intervento in caso di choc è sulla preservazione delle imprese esportatrici, negli Stati Uniti l’intervento in caso di choc è attuato rafforzando il settore finanziario.
Questa è la modalità tradizionale per affrontare una crisi grave nei tre Paesi. E l’Italia? A differenza del Regno Unito non è trainata dai consumi, dalla finanza, e dall’immobiliare. Ha però lo stato sociale proprio come il Regno Unito. Condivide con la Germania il traino delle esportazioni, ma, a differenza di quest’ultima, ha una struttura industriale più fragile perché composta in gran parte da piccole e medie imprese. Ha però lo stato sociale proprio come la Germania.
Tornando agli Stati Uniti, resta da chiedersi se uno choc come quello di oggi, che è di gran lunga peggiore di quello di dieci anni fa, quello innescato dai cattivi crediti in campo immobiliare, possa essere assorbito salvando la finanza e aspettando che il mercato del lavoro si aggiusti alle nuove condizione attraverso una variazione dei salari e dell’occupazione.
La crisi del coronavirus potrebbe durare per un tempo maggiore di quello che il sistema vigente degli Stati Uniti senza degli istituti volti ad assorbire gli choc come quelli europei, possa reggere. E se la crisi da coronavirus durasse troppo, ecco che potrebbe sorgere la tentazione di far ripartire subito l’economia togliendo la quarantena. Facendo così, se si sbagliasse la previsione intorno al contenimento del virus, si rischierebbe una crescita dei contagiati e quindi una crisi sanitaria in un periodo successivo.