Quando scoprii che esisteva qualcosa chiamato Marmite, e che questo qualcosa era una crema spalmabile, correva l’anno 1997, e – come ogni estate – ero stata spedita dai miei genitori in vacanza studio in Inghilterra. Le aspettative dicevano Londra, la realtà rispondeva estrema periferia di Londra, del tipo che per arrivare a Piccadilly Circus bisognava cambiare almeno tre linee di metropolitana e mettere in conto circa un’ora di viaggio, ma comunque. La famiglia che ospitava me e l’amica con cui ero partita la mattina ci preparava sostanziose colazioni a base di torrette di pane tostato, burro, marmellata, salsicce, fagioli, e mentre noi cercavamo alla bell’e meglio di onorare cotanta generosità, i figli non alzavano mai gli occhi dai loro sandwich farciti con una timida spalmata di una crema densa, scura e appiccicosa. Un giorno mi decisi a chiedere cosa fosse, e loro – classici bambini inglesi di periferia, settenni già mezzi delinquenti – iniziarono a scambiarsi gomitate e risolini finché uno dei due mi mise sotto gli occhi il barattolo di Marmite, con tappo ed etichetta gialla: «Assaggiala, è buona». «Dai», incalzai la mia amica, «proviamo ‘sta Marmite». Ne mettemmo decisamente troppa sul toast, incoraggiate pure dai due scugnizzi che non vedevano l’ora di osservare le nostre reazioni da schizzinose italiane che all’estero pretendono la pasta al dente: la mia amica dopo un paio di masticate sputò il suo boccone nel tovagliolo, io invece resistetti stoicamente fino alla fine, in una specie di trance gustativa, ché non avevo mai avuto a che fare con un sapore del genere. Provo a descriverlo, nonostante sia impossibile: un po’ salato, un po’ lievito, un po’ salsa di soia, con una consistenza pastosa, che avvolge tutta la bocca.
«Marmite. You either love it or hate it», recitava d’altronde il famoso slogan concepito negli anni ’90 per pubblicizzare un prodotto che è il simbolo e la quintessenza del Regno Unito, al punto che pure alcune persone vengono descritte «come la Marmite», proprio perché polarizzanti, divisive, che non conoscono mezze misure. Prodotta per la prima volta nel 1902 a Burton-upon-Trent, nello Staffordshire, da parte della Marmite Food Company, deve la sua nascita allo scienziato tedesco Justus von Liebig, che casualmente intuì la possibilità di estrarre, concentrare e ridurre in poltiglia il lievito di birra – e non a caso l’azienda sorgeva a sole due miglia dal birrificio Bass. Per ottenere la Marmite occorre permettere l’autolisi del lievito: questo si autodistrugge una volta in contatto con il sale in una soluzione ipertonica, dopodiché le sue cellule vengono riscaldate eliminando le pareti cellulari e regalando un risultato liscio e cremoso. Agli estratti di lievito vengono poi aggiunti sale ed estratti vegetali come sedano e cipolla, per un concentrato di quello che oggi definiamo – in modo parecchio chic – umami.
Tornando a noi, qualche anno dopo la Marmite – il cui nome deriva dalla parola francese marmite, una sorta di pentola non dissimile dalla pentola bollente raffigurata sull’etichetta – divenne estremamente popolare: i suoi grandi benefici a livello nutrizionale la portarono a essere uno dei cibi più utilizzati dai soldati durante la due guerre mondiali, dalle donne in gravidanza, negli ospedali e nelle scuole, in quanto preziosa fonte di vitamine del gruppo B. Di proprietà del marchio Unilever dal 2000, la Marmite sin dalla sua invenzione è una presenza fissa nelle cucine inglesi, un po’ come la nostra Nutella (perdonatemi, paragone azzardatissimo): arricchisce toast, sandwich, stufati e casserole, i più impavidi se la mangiano pure a cucchiaiate – e qui sospendiamo qualsiasi giudizio. È un cibo talmente pop che rischia quasi d’apparire banale: nessuno fino a poco tempo fa s’era mai preoccupato di elogiarla, riabilitarla o di restituirle un palcoscenico, almeno finché gli chef hanno deciso di renderla uno dei loro ingredienti principali e di non relegarla più a un segreto asso nella manica, come riporta il Guardian.
Ci sono le alette glassate alla Marmite di Eat Vietnam a Stirchley, Birmingham; gli agnolotti di zucca con Marmite e funghi di Monica Galleti al Mere, nel centro di Londra; la flat iron steak con midollo Marmite di Grace Dent al Bank House di Chislehurst, nel sud-est londinese. «Dal punto di vista di uno chef, è un condimento che dona profondità e umami, nonché un ottimo strumento per la stratificazione dei sapori», afferma lo chef Sat Bains. Sebbene Bains abbia usato la Marmite dall’inaugurazione dell’omonimo ristorante a Nottingham nel 1999, è stata la sua millefoglie – un’alternanza di capesante, tartufo nero e pelle di pollo croccante, servita con un jus di Marmite con aceto di soia e sambuco – che l’ha fatta ufficialmente apparire sul menu, e ora arricchisce anche il brodo per le polpette di capra e pancetta di maiale. Gizzi Erskine è da sempre in prima linea nel dichiarare amore e fedeltà alla Marmite, tanto che nel suo The Nitery, a Covent Garden, propone una bistecca alla tartara con midollo che cola su di un toast alla Marmite, unito a tuorlo d’uovo essiccato: «la Marmite e il midollo s’immergono nel toast, e quando s’inserisce la tartare è come se il gusto s’elevasse». Le fa eco Tom Cenci della Loyal Tavern di Londra, che ricorre spesso alla Marmite «per donare ricchezza, sapidità, e consistenza a brodi, salse, piatti vegetariani e vegani». Tuttavia Cenci, pur consapevole d’incappare in una certa ingannevolezza, non la vuole menzionare nel menu: «ci sono molte associazioni nostalgiche legate al prodotto, ma allo stesso tempo non vorrei scoraggiare le persone a cui non piace».
Love it or hate it, non a caso: Sat Bains ad esempio confessa che non avrebbe mai mangiato un toast spalmato di Marmite, «però ridurla in un concentrato e mescolarla insieme al burro la trasforma inaspettatamente in un qualcosa di simile al brodo di vitello», una constatazione che non è passata inosservata alle orecchie dei produttori della Marmite. «Abbiamo scoperto che alcuni hater, che detestano il forte sapore della Marmite sul toast, la trovano di gran lunga più appetibile se utilizzata come ingrediente in una ricetta», afferma la brand manager Camilla Williamson. E c’è di più. «La Marmite cavalca alcune tendenze più ampie nel mondo del cibo», sostiene Shokofeh Hejazi, analista di The Food People: queste includono le preoccupazioni legate allo spreco alimentare (la Marmite è prodotta con gli avanzi del lievito di birra) e l’aumento delle diete a base vegetale, alle quali la crema spalmabile dona un contrappunto stuzzicante e nutriente. «Si tratta di un alimento ricco di vitamina B12, che è naturalmente presente soprattutto nei prodotti di origine animale», continua Hejazi, «per non parlare del suo umami e del suo sapore deciso», e non è affatto una coincidenza fortuita che per tanti ex mangiatori di carne convertitisi al vegetarianismo sia ormai un acquisto irrinunciabile in cima alla lista della spesa.
Quella della Marmite insomma è una rivincita, o, meglio, uno sdoganamento che ricorda vagamente l’uscita alla luce del sole di una coppia che si frequentava in segreto, tenendo amici e conoscenti all’oscuro. Uno sdoganamento così assoluto che sono pure nati degli spin-off di successo: il burro d’arachidi alla Marmite, in versione Crunchy o Smooth. Chissà se l’amica che era insieme a me a Londra ventitré anni fa sarebbe disposta a rivedere la sua posizione sulla Marmite: le noccioline, d’altronde, non si sposano bene con tutto?