Dalle molteplici conferenze stampa di Giuseppe Conte credo di aver capito, a stento, che cosa potremo e non potremo fare, dopo quasi due mesi di lockdown. Ma non ho capito cosa abbia fatto lui, in tutto questo tempo, per consentirci di ripartire in condizioni almeno un poco migliori di prima. A parte nominare consulenti e convocare conferenze stampa, s’intende.
Se non fossero costantemente impegnati a ricordarci che si tratta di una situazione senza precedenti – il che è senza dubbio vero, ma è vero da almeno due mesi – i numerosi difensori dell’avvocato del popolo potrebbero dirci quale concezione del calendario, dello spazio-tempo e della fisica subatomica spieghi perché due mesi non sono stati sufficienti a decidere una volta per tutte se a partire dal 4 maggio le messe si possano celebrare o no (in conferenza stampa Conte ha detto di no, ma poche ore e molte proteste dopo ha detto di nì).
Oppure se il campionato di calcio debba o non debba ripartire: in conferenza stampa Conte ha detto che «il ministro Spadafora lavorerà intensamente con gli esperti del comitato tecnico-scientifico e con le varie componenti del sistema calcio per trovare un percorso per la ripresa», ma poche ore dopo il ministro Spadafora se l’è presa proprio con le suddette componenti, accusandole di voler «trasformare il nostro “vedremo” nell’incapacità di decidere del governo» (trasformazione, va detto, piuttosto agevole).
La notizia più sconvolgente è però che in tutto il governo, con annessi comitati tecnico-scientifici, consulenti e task force, tra tanta fioritura di teste d’uovo, professori di Harvard, manager internazionali, non ci sia stato uno che dinanzi alla definizione «congiunti» – o peggio, poche ore dopo, «affetto stabile» – abbia alzato la mano per domandare gentilmente ai presenti: «Scusate, in che senso?».
Complice anche il calendario, l’annuncio della fase due era stato preceduto da una tale fanfara – i comitati, le app, il modello coreano – che sembrava dovesse essere il giorno della Liberazione; si è rivelato piuttosto l’8 settembre (con il problema aggiuntivo che qualcuno dovrà spiegare a Conte la differenza). E il rischio concreto, visto lo stato di preparazione, è che si concluda pure allo stesso modo, con un nuovo, drammatico, «tutti a casa».
Dalle parole del nostro prolisso presidente del Consiglio, infatti, non solo è scomparsa ogni traccia della fantomatica App, ma soprattutto non è venuta alcuna rassicurazione circa la nostra capacità di individuare e testare, in qualunque modo, i sospetti contagiati. Che è il problema principale, perché riguarda proprio il dato sulla base del quale tutti – politici e scienziati – prendono le loro decisioni.
Se non sappiamo quanti sono e dove si trovano i contagiati, di che parliamo? Di cosa parlano lo stesso Conte e i suoi tecnico-scienziati quando ripetono che andremo per gradi, e che, qualora dovessero risalire contagi, torneremo al lockdown?
Se non disponiamo di strumenti, risorse e organizzazione adeguata a garantire una tempestiva individuazione dei nuovi casi, evidentemente, ce ne accorgeremo solo quando le terapie intensive torneranno a scoppiare, vale a dire quando sarà, di nuovo, troppo tardi.
In pratica, dal famoso modello coreano a tre T (Testare, Tracciare, Trattare), siamo passati al più antico modello italiano a tre P: Più avanti, Più o meno, Può darsi. Senza considerare un ulteriore e non secondario elemento psicologico, evidentemente trascurato da chi evoca con tanta leggerezza la possibilità di retrocedere immediatamente dalla fase due alla fase uno. E cioè che nei sequestri di persona quello della “finta liberazione” è uno stratagemma usato per far crollare il prigioniero, ed è usato perché funziona.
Pensare che dopo due mesi di lockdown e qualche giorno di riapertura, peraltro molto parziale, il governo possa dire da un momento all’altro che abbiamo scherzato, che si torna tutti dentro casa un’altra volta, significa avere perso definitivamente il contatto con la realtà. È evidente che se i contagi dovessero risalire, in mancanza di alternative, bisognerà tornare indietro. Il punto è che questi due mesi avrebbero dovuto servire a costruire proprio questo: le alternative. O perlomeno a immaginarle.
Il problema, in altre parole, non è se la ripartenza prevista sia troppo lenta o troppo rapida. Il problema principale, reso tragicamente evidente dalla conferenza stampa e dalle successive precisazioni, smentite e rettifiche di ieri, è che non è stato previsto un bel niente.