Non dove ma come, come in attesa, e il tempo passa però no.
Abbiamo tutti, finalmente, una casa sul fiume, come nei sogni infantili, che sono sprezzanti di ogni pericolo, ma sul fiume davvero, cioè con l’acqua sotto che scorre. Anche, se vogliamo, sul mare, potendo calare la lenza dalla finestra, non per prendere i pesci, perché non siamo cruenti, ma le stelle, nemmeno di mare perché muoiono subito, sì le stelle del cielo, perché soffriamo (ossia ci beiamo) di vanità astronomica e perché è impossibile, però qualcosa brilla sopra l’amo nudo, una goccia di stella (ecco, così per oggi abbiamo pagato l’affitto all’enfasi).
Voglio dire: ci affacciamo sul tempo che scorre (mai la stessa acqua ma sempre acqua per dire che scorre e per dire che è acqua: questo è il tempo, mai lo stesso ma sempre lo stesso) e fa la risacca e i mulinelli e la calma e le onde, e la schiuma, “la schiuma dei giorni”. Eh, Boris? Ossia Vian, tu che hai scritto quel libro, quel libro per l’oggi.
Così abbiamo pagato pure questo: lo stucchevole consiglio di lettura del giorno, del tempo in corso, anche se leggere non serve a niente se il libro che leggi tu non lo hai scritto in un’altra vita che non esiste e per questo lo hai scritto, la vita (ci siamo, cominciano a saltare le concordanze come ponti di stuzzicadenti alle nostre spalle, eh Boris?). Se cerchi di capire vuol dire che non è cosa, capire è un lampo, anche abbagliante, così che quello che capisci è folgorante e squaglia le parole in un bianco abbacinante, ché se tu cerchi di usarne altre per dirmi cosa hai capito mi annoi profondamente e a lungo, lascia perdere, dico a me, tu, non farmi il romanziere.
Così saltano le concordanze pure tra pronome e persona come quei semi proiettati dai fiori e dai frutti delle piante che sputano i semi come chi li sputa dai frutti mangiati. Fiori che esplodono come le stelle (sempre le stelle), frutti che un po’ oscenamente come sessi spargono semi; e una pianta si chiama “erba impaziente”, un nome da pellerossa, e un’altra si chiama “cocomero asinino”, un nome da europeo, insomma bei nomi.
Così anche oggi mi son fatto prendere la mano e, allo stesso tempo, ho perso il filo, due buoni risultati in un colpo solo. Ah, ecco, dicevo, sì, si sta come in finestra, o anche al balcone, con sotto il fiume, ovviamente del tempo, che scorre o, con sotto, il mare, ovviamente dei giorni e dei loro orizzonti, e dell’onde che arrivano a riva con un tic tac oscillante da pendole.
Si sta. Si sta, come sta nel libro quella storia d’amore nella quale lei si ammala e poi muore perché le cresce nel polmone una ninfea che la soffoca. La cura quale è? Circondarla di fiori, di fiori, di fiori, di fiori… (come la rosa è la rosa è la rosa è la rosa…), e la casa si fa sempre più stretta. Poi finiscono i fiori. Ma è soltanto un libro, come il fiume è solo il fiume, e il mare è solo il mare.
Chiuso il libro c’è la vita, si apre il libro della vita (così oggi ho pagato l’affitto anche al lezioso locatore di figure retoriche). Non so se mi spiego a me stesso. Non so, finalmente, nemmeno cosa sto dicendo, anzi, muto, scrivendo. Forse questo: che nelle attese si diventa infantili.
Non si sa dove ma si sa come: come, appunto, in attesa, mentre il tempo eccetera eccetera (e così ho giocato un po’ con la mia cagnetta, la lunga bassotta, eccetereccetera, questa locuzione con la coda vibrante, che significa le cose restanti e anche diamoci un taglio, non alla coda, no, non alla coda, alle cose, sta’ tranquilla, Musa). E qui mi fermo perché avrei delle rivelazioni da fare sull’attesa e sull’infantilismo, e ci godo a non farle. Per ora.