Allora muoviamoci, volete fare un po’ di ginnastica? Allora muovetevi. Ve la do io la ginnastica, l’atletismo, questa è roba fisica. Questa che? Questa, questa: la scrittura. È un bell’ingaggio, fa bene al corpo.
Le pagine, i testi, i paragrafi, le tirate: che campi, che erbetta, che acqua per nuotate, che terra rossa, che circuiti, che sollevamento pesi, dal passato a qui, dall’oggi al domani a stampa su Linkiesta, che percorsi a ostacoli, quando siamo cavallo e cavaliere, eh, Boris, ossia Pasternak?
Voglio divagare: scrivere è scrivere frasi, altro che l’acqua di risciacquatura delle lunghe solfe. Lo so, sembra riduttivo, lo è, riduciamoci almeno alla maestria. Sai scrivere frasi? Puoi anche metterci un romanzo per contorno: quella servile corte che è una storia. Ma, meglio ancora, puoi anche non farlo, puoi toglierti dai piedi quei serventi, compreso, anche, chi legge. Che poi ti suona il piffero moscio e il tamburo molle sui social. Perché farti leggere se puoi, miracolo, apparire? Non sai scrivere frasi? Lascia perdere, Stai risciacquando i piatti e la piattezza.
Pasternak, dicevo. No, non lo disse di sé, Pasternak, del cavallo tutt’uno col cavaliere, lo disse Marina Cvetaeva ma non lo scrisse, Šklovskij scrisse che Marina Cvetaeva disse, “dice che Pasternak somiglia contemporaneamente a un arabo e al suo cavallo”. Che grande giocata a tre è questa frase.
Pasternak scrisse quell’attacco: “Mia bella, tutta la struttura…”, fine. Che vai avanti a fare? Con questa frase vinci il salto in alto e in lungo, e la corsa sul tratto breve. Mi importa assai di seguitare, seguitare che? Sì, capisco, campare, campare con i piedi per terra. Sì, capisco, non si può campare per sempre in aria come l’atleta sopra l’asticella o in volo, capisco, si campa perché dall’alto si cade e dal volo si atterra, è la legge, la legge di gravità, campare bisogna. Diventare la pappetta con la quale alimentare quel pupo che è il ricordo, che piagnucola perché ha fame e poi, imboccato, sbrodola. Pasternak, quale era il suo avverbio? Il suo avverbio era “perdutamente”. Lo usò bene anche Sermonti in un suo libro, l’avverbio dico.
Basta, ho divagato. Allora, la scrittura. Si dice “corpo tipografico”, ecco: il fisico, l’atletismo, l’esercizio fisico. E che scontri, e che botte, pure. Gli aggettivi sono difensori tosti, ostruzionisti pesanti. Gli scontri te li ricordi tutti. All’inizio fai questo gioco di penna, queste veroniche, questi veli, gli nascondi il sostantivo, li stuzzichi, glielo fai capire: vienitelo a prendere. Gli dai pure le spalle all’aggettivo per fargli credere di poterti aggirare, e tu senti su che lato esso preme, quale fianco ti sfiora, allora tu arretri obliquo al contrario del suo attacco, e l’aggettivo, che è ottuso, ti supera sul fianco sfiorato, così te lo trovi davanti al sostantivo, ma è ancora tutto sbilanciato, allora tu distendi il sostantivo come una falce e lo stronchi facile, l’aggettivo, talmente scomposto che pare sua l’infrazione.
Ricordo frasi che per arrivare al punto fecero veramente qualcosa di meraviglioso, nel disegno, nella calligrafia del loro gioco, nelle linee di passaggio tra sostantivi e verbi e sostantivi ancora e congiunzioni, le combinazioni sintattiche, gli articoli che parevano niente, le particole, le infide particelle prenominali, le preposizioni sentimentali, ma spesso da lì la frase iniziava a puntare il significato, bella lotta: il significato gioca spesso sporco e, se non gioca sporco, fa le sue finte da danzatore.
Lo massacreresti ma non puoi macchiare la pagina di sangue, il suo, appiccicaticcio, o il tuo, che se è buono non mente, ma può apparire patetico. Ma certe volte lo fai, lo affronti eroico, eroico tu.
Insomma, si suda, ti colano le virgole, anche negli occhi. Certi contrasti alzano le polveri di tutte le punteggiature, ti vanno pure queste negli occhi, te li arrossano, e tu non capisci che rosso sia, se passione, se dolore, fastidio, o il tramonto del brano.
Gli occhi, già. Ci sono frasi che si comportano come molle compresse, frasi che sono braccia accostate al petto del testo, raccolte, in posizione di guardia destra e sinistra, i pugni nei guantoni dietro i quali vedi gli occhi, la frase ti osserva, tu fingi di scoprirti, allontani la tua guardia e mostri il viso da ebete ispirato ossia distratto da una qualche evanescenza, qui scatta il destro della frase verso il tuo naso ma tu arretri, sai che poi arriva la ventata del sinistro che sconvolge tutte le fronde del paesaggio, il petto della frase è scoperto, allora tu, chinandoti come chi scrive, colpisci il plesso solare col pugno della mano che scrive, e nello stesso pugno hai quella frase in pugno (ah, la destrezza di ripetere tre volte una parola in pochi centimetri di frase).
Se scrivi alla tastiera non basta un colpo solo, il primo è meno potente, hai bisogno che lavori anche l’altra mano, col braccio disegni un uncino e porti il colpo al fegato della frase, e la fai boccheggiare, pendente dalle tue labbra. Ma non va sempre così liscia, spesso è zuffa, è come se ti tornassero addosso i tuoi colpi, ma non sono i tuoi, sono i colpi della frase che t’ha studiato, ha imparato da te, ma tu anche impari da lei, e qui la cosa muta in rissoso affetto, in stretta, in un miscuglio di colpi brevi come colpi ai tasti, e salta qualche lettera o uno spazio si spacca come un sopracciglio (non usare la testa, però, non usare la testa, è proibito). Finché, come la frase, pure tu sei steso. Va così. Siete tutt’e due sul rigo, spossati, vinta e vinto.
“Mia bella, tutta la struttura, / tutta la tua sostanza mi va a genio…”. Ah, quella partita, Pasternak ai versi, Ripellino alla traduzione, e come giocarono, come giocarono, la neve si scioglieva squillando e contemporaneamente cadeva in un pianissimo, i versi avevano gli zoccoli e le criniere, l’amore svariava sul campo come un uccellino, ogni tanto stallava, allargava le ali e mostrava un petto insanguinato di lampone, spruzzava la parabola di una cacatina, poi fingeva di precipitare come un rasoio, “le parole sono palle che volano”, dirà Zeman anni dopo. Averli visti giocare, e chi se lo scorda.
Vivi, li vedemmo vivi, erano vivi quando noi ragazzini eravamo già vivi e li vedemmo giocare. Alla fine dell’incontro uscirono dal campo, e sembrò che la poesia uscisse, in quei giorni, di scena, tutta sudata, tutta stremata. Così sembrò, poi non sembrò più, così fu.