«Qui l’epidemia è in aumento continuo, a Desio infierisce non meno che a Milano; basta vedere le tre colonne dei morti della gente per bene nel Corriere per persuadersi qual è la mortalità nei quartieri popolari. Non si sa più dove mettere i bambini orfani di madri ed i cui padri sono al fronte. È un problema trovare ora dei medici. Tutti sono sopraffatti dal lavoro e in fondo nessuno è curato a dovere. Forse anche la grande mortalità è dovuta alla scarsa assistenza sanitaria».
Lettera di Anna Kuliscioff a Filippo Turati, 12 ottobre 1918.
«Per consolarci dall’influenza verdigera, che imperversa sempre più (A Roma 200 morti – anche a Torino è gravissima – alla Camera abbiamo 12 inservienti ammalati e un segretario della Biblioteca morto l’altro giorno; neppure le trincee di libri salvano da questa peste!), si vuole che tra le cagioni che determinano il mollamento tedesco ci sia il grippe, che avrebbe messo a letto 300 mila soldati, e i casi in Germania si conterebbero (pigliala per quel che vale) a 12 milioni».
Lettera di Filippo Turati ad Anna Kuliscioff 13 ottobre 1918.
Nell’ottobre del 1918 l’Italia è stremata. La Prima Guerra Mondiale è agli sgoccioli: prima della fine del mese ci sarà la battaglia di Vittorio Veneto, che sancirà definitivamente la sconfitta e il disfacimento dell’Impero austro-ungarico, e la vittoria italiana. Ma sono giorni difficili, per chi è al fronte come per chi è rimasto nelle città. Alla fine dell’estate sulla penisola si è abbattuta una seconda ondata di influenza spagnola, che sta facendo più vittime della guerra.
Se la prima ondata del virus, nella primavera precedente, era passata quasi sottotraccia, il nuovo picco di settembre non può essere ignorato: la maggior parte dei circa 4 milioni e mezzo di contagi e 600mila morti – su una popolazione di 36 milioni di abitanti – viene colpita proprio in quelle tredici settimane da settembre a dicembre.
La situazione degenera rapidamente. Conseguenza soprattutto delle tardive contromisure del governo e delle amministrazioni locali, che in un primo momento avevano sottostimato l’impatto dell’influenza spagnola e provato a nasconderla per non aggiungere ulteriori preoccupazioni agli italiani.
Nei mesi più duri del conflitto la censura della guerra aveva contribuito a sbiadire l’impatto del virus, mentre sui giornali si creavano contraddizioni tra le numerose colonne di necrologi e i minuscoli trafiletti di cronaca creati ad arte per rassicurare la popolazione con sole informazioni di servizio.
Ora che è tutto finito e la pandemia è esplosa, il presidente del Consiglio e ministro dell’Interno Vittorio Emanuele Orlando si trova costretto a vietare il suono delle campane per i funerali, soprattutto dove il morbo fa più vittime, come a Torino – una situazione «gravissima» nelle parole di Turati – dove nel mese di ottobre si registrano anche 400 morti al giorno.
In pieno autunno il bilancio della spagnola inizia a diventare insostenibile e lo Stato deve reagire. Il 17 ottobre 1918 viene pubblicato il decalogo dettagliato del comune di Milano, con una serie di indicazioni da seguire: «Fare gargarismi con acque disinfettanti (dentifrici a base di acido fenico, acqua ossigenata), non sputare per terra, viaggiare in ferrovia il meno possibile, diffidare dei rimedi cosiddetti preventivi, evitare contatti con persone, non frequentare luoghi dove il pubblico si affolla (osterie, caffè, teatri, chiese, sale di conferenze). Così facendo si mette in pratica l’unico mezzo veramente efficace contro l’influenza, l’isolamento», e così via.
In tutta Italia le autorità centrali e locali danno il via a una campagna di disinfezione dei luoghi pubblici per assecondare le richieste dell’opinione pubblica. L’inizio della scuola viene posticipato a data imprecisata; viene ridotto l’orario di apertura dei negozi, con le sole farmacie a beneficiare di un allungamento dei turni; cinema e teatri restano chiusi nonostante le proteste dei proprietari che chiedono di essere risarciti.
La classe dirigente vuole fermare solo i servizi non essenziali, facendo lavorare a pieno regime le principali attività economico-produttive: fermare la complessa macchina statale avrebbe incalcolabili ripercussioni sull’operatività dell’esercito in un momento decisivo del conflitto. La conseguenza però è l’aumento di assembramenti all’ingresso dei negozi alimentari; nonostante la consapevolezza del pericolo, lo Stato sceglie di non aggiungere limitazioni per non aggiungere nuove ansie. I ceti popolari temono di rimanere senza viveri e assicurare loro il pane – al netto della carenza di beni di prima necessità – è un tentativo di calmare gli animi.
Il governo sceglie anche di non fermare le fabbriche. Gli spostamenti quotidiani di migliaia di operai, però, moltiplicano le occasioni di contagio: le condizioni igieniche e lavorative non possono garantire la salute dei lavoratori, la distanza non è rispettata, né le precauzioni eseguite alla lettera. Così la malattia avanza inesorabilmente nelle industrie facendo crollare la produttività.
Gli stabilimenti dipendenti dal Comitato regionale di mobilitazione industriale per l’Italia centrale e la Sardegna (nei centri di Roma, Ancona, Terni e Chieti) registrano dal 10 ottobre al 27 novembre 12.426 casi d’influenza su 40.048 operai, che causano circa 75mila assenze dal lavoro.
«L’Italia scontava un duplice ritardo, sia per le strutture statali, sia per la condizione della popolazione», spiega Paolo Mattera, professore di Storia Contemporanea all’Università Roma Tre. L’impostazione della sanità si dimostra del tutto inadeguata per una pandemia di quella portata. In assenza di un ministero della Sanità – sarebbe stato istituito solo nel 1958 – le malattie infettive, considerate un problema di ordine pubblico, sono in carico al ministero dell’Interno, e l’unico provvedimento certo – conosciuto e condiviso anche nel resto del mondo – è il distanziamento sociale.
«Si guardava prevalentemente alla sicurezza – spiega il professor Mattera – si puntava a isolare i malati in casa. Questi, privi di cura, morivano in numero maggiore, e contagiavano i familiari nelle case, che morivano di conseguenza». Ma non va poi tanto meglio a chi è ricoverato in ospedali travolti dall’emergenza sanitaria: il personale sanitario è abituato a una routine lenta, compassata, con procedure farraginose, incapace di adeguarsi con la dovuta rapidità. I medici protestano per le estreme condizioni lavorative, con poco personale e mezzi inadeguati: alcuni di loro arrivano ad abbandonare il servizio. E non sono gli unici a protestare.
Con il passare delle settimane il peso di quella seconda ondata di influenza spagnola presenta il conto a tutta la popolazione italiana, che manifesta la propria preoccupazione, impressionata dalle spaventose scene a cui si assiste nelle città e nelle campagne a causa dell’eccesso di mortalità.
Fino all’estate l’impatto sui cittadini era stato diverso. Durante la prima ondata di influenza, meno letale, era prevalso il desiderio di liberarsi dal peso e dai dolori della guerra: per quanto potesse essere diffusa la spagnola avrebbe impiegato del tempo per scavarsi un posto tra le preoccupazioni degli italiani. La stessa guerra – la più devastante a memoria d’uomo – aveva completamente stravolto la percezione e il valore della morte.
Una buona parte della popolazione vive in piccoli borghi, o nei villaggi, con un orizzonte esistenziale molto ristretto. Per molti italiani nel 1918 lo Stato è ancora una realtà astratta, distante, che si presenta soltanto per le tasse e la leva militare: c’è una certa diffidenza, o comunque distanza, verso le istituzioni.
«Questi sentimenti – spiega Mattera – si trasformano in ostilità quando ci si rende conto che le contromisure dello Stato non hanno effetto. Lo si nota in alcune lettere inviate dai cittadini alle istituzioni, che nel corso dell’epidemia passano da un tono di supplica a uno di avversione, a volte sfociando perfino in teorie del complotto: si diceva che il malfunzionamento delle istituzioni fosse frutto di chissà quali oscuri interessi di Roma. Alimentando ulteriori paranoie e anche la diffusione di false notizie in piena escalation di influenza».
A novembre l’epidemia sembra aver allentato le maglie. Il 9 novembre la Giunta sanitaria di Milano rileva «il quasi completo ripristino dello stato normale della salute pubblica, ferme quelle disposizioni la cui efficacia è stata dimostrata chiede la revoca di tutti i provvedimenti eccezionali». Ma forse è ancora troppo presto e nelle settimane successive i contagi riprendono a crescere.
«Finita la guerra, mio padre ritornava grazie a Dio vivo e sano, ma nella nostra casa regnava la miseria, più guaio ancora finita la guerra, vi è stata una malattia infettiva chiamata la spagnola, anche mio padre e quasi tutto il popolo erava infettato e l’agente moriva accatastrofi nel nostro piccolo paese. Al giorno morivano tante volte due o tre in una famiglia, anche mio padre appreso quel male, ed è arrivato impunto di morire fino a portarle il viatico e lestremensione il nostro parroco. […] All’ora eravamo 4 fratellini forse Dio l’avuto pietà e lo à fatto campare», racconterà Tommaso Bordonaro, di Bolognetta, provincia di Palermo, nove anni nel 1918, nel libro di Francesco Cutolo “L’influenza spagnola del 1918-1919”.
Nel Mezzogiorno l’influenza spagnola colpisce ancora più forte, vista l’inadeguatezza delle strutture sanitarie e la scarsa preparazione di una parte della classe dirigente. Anche lì riaprire e tornare alla normalità non porta il sollievo sperato: la pandemia ritorna per una terza ondata. Anche a causa dei reduci del conflitto, che ritornano alle loro case e alimentano nuovi focolai.
L’11 gennaio il periodico socialista «La Squilla» di Bologna ancora scrive: «Censura / Morti in guerra: 462.740 / Feriti: 987.340 / Invalidi e mutilati: 500.000 / Non c’è la statistica dei morti di spagnuola, perché la “maledetta” continua ad ammazzare! / Dopo il cannone, lei ci voleva! / Ma da che mondo è mondo la peste andò sempre dietro la guerra / È storia; è anche nella Bibbia!».
Nei mesi immediatamente successivi alla Grande Guerra, la voce del partito socialista si fa più insistente, si inserisce nelle pieghe del malcontento e incendia gli animi dei cittadini. Non a caso l’Italia è il secondo paese europeo che la III Internazionale ritiene più prossimo alla rivoluzione, dopo la Germania. Nel 1919 gli scioperi operai e agrari conoscono un aumento considerevole di intensità e visibilità. La masse diventano protagoniste della scena pubblica italiana e il Partito Socialista Italiano cresce fino a diventare il primo partito nazionale: alle elezioni del novembre 1919 il PSI diventerà il partito di maggioranza relativa con il 32% dei voti.
Quello dei socialisti si rivela, però, un fronte spaccato in profondità, tra massimalisti (la maggioranza, favorevole all’attuazione del programma massimo del partito) e riformisti (minoranza che controlla il gruppo parlamentare, la Confederazione generale del lavoro e le molte amministrazioni comunali “rosse” del centro-nord).
Sul fronte opposto, però, c’è crescente tendenza nazionalista di una frangia di italiani che alimenta il mito della vittoria mutilata. Nel settembre del 1919 un corpo di volontari guidato – tra gli altri – dal poeta Gabriele d’Annunzio occupa la città di Fiume per annetterla, in contrasto con quanto stabilito dalla Conferenza di Versailles. Più del risultato, l’impresa di Fiume conferma la forza crescente di un nuovo protagonista politico, il movimento fascista fondato nel marzo precedente dall’ex socialista Benito Mussolini.
Nella seconda metà del 1920 il fascismo si organizza in squadre paramilitari, si preoccupa di spezzare la rete delle organizzazioni socialiste e di quelle cattoliche, e attira attorno a sé un nuovo blocco sociale composto in prevalenza da ceti medi ed egemonizzato dal padronato agrario e industriale: in questo modo prosciuga la base di consenso che ancora rimaneva ai liberali.
Nel novembre del 1921 nasce il Partito nazionale fascista, che conta ben 300mila iscritti (il PSI, alla sua massima espansione superava di poco i 200mila). Passerà meno di un anno prima che Mussolini decida di passare all’attacco facendo marciare su Roma decine di migliaia di “camicie nere” (ottobre 1922).
In questo scorcio di storia d’Italia il peso dell’influenza spagnola è quasi del tutto assente. Non è più priorità per il governo, le amministrazioni locali o i cittadini. Le rivoluzioni delle masse iniziate nel ‘19 difficilmente trovano una causa scatenante nella pandemia. Al più, può essere intesa come un amplificatore del malcontento delle fasce più basse della popolazione.
Come spiega Marco Mondini, professore di Storia dell’Università di Padova: «Sappiamo che l’epidemia ebbe un ruolo nella fine della guerra, contribuendo a decimare ulteriormente gli eserciti. Ma abbiamo meno correlazioni con quel che è arrivato dopo. Potremmo trovare un legame solo indiretto, immaginando come l’ulteriore piaga possa aver esacerbato il popolo, trasformando il desiderio di migliorare la propria condizione nella realizzazione che questo rischiava di diventare impossibile».
Al contrario, si potrebbe ipotizzare che i movimenti delle masse abbiano in un certo senso contribuito alla fine dell’influenza spagnola, almeno a livello di percezione nell’opinione pubblica: hanno fatto sì che questa fosse intesa ancor meno come una preoccupazione. Più in concreto, invece, non è chiaro cosa abbia portato al termine della pandemia.
La risposta unanimemente condivisa dalla comunità scientifica è che la quarantena ha portato i suoi benefici. Lo ricorda anche Laura Spinney nel suo libro “1918 L’influenza spagnola”, dopo aver collezionato dati di tutto il mondo, e confrontato comunità che se la sono cavata bene grazie al distanziamento sociale con quelle che non l’hanno applicata e hanno avuto risultati molto peggiori.
È probabile che con il passare dei mesi il virus abbia subito una mutazione verso una forma meno letale. Ma un altro fattore che avrebbe portato alla fine dell’influenza spagnola potrebbe essere la sensibile diminuzione demografica successiva alla seconda ondata, quella dell’autunno del 1918. Come spiega il professor Mondini: «Se guardiamo l’Italia sappiamo che l’epidemia, combinata alla Grande Guerra, uccise circa un milione e 200mila persone per lo più comprese tra i 18 e i 30 anni nel quinquennio ‘15-’20. Il combinato delle due cause devastò la piramide demografica italiana in modo talmente profondo che secondo alcuni demografi ne siamo venuti fuori solo dopo la Seconda Guerra Mondiale». È possibile, quindi, che nell’estate del ‘19 tutti quelli che erano entrati in contatto con il virus siano morti o abbiano sviluppato una forma di immunità.