Perché la crisi che si è aperta con la comparsa del Covid-19 non colpisca gravemente milioni di italiani, in particolare coloro che si trovano in condizioni di particolare difficoltà, mettendo a rischio anche la coesione sociale, non sono sufficienti le misure a protezione del reddito delle famiglie e a sostegno delle imprese. Occorrono anche misure specifiche per tutto il sistema dei servizi sociali, socio-sanitari, culturali ed educativi e dell’inserimento lavorativo che da sempre sostengono le persone più fragili e aiutano le famiglie.
Un sistema composito dove operano fianco a fianco soggetti pubblici e privati, questi ultimi in larga parte appartenenti al terzo settore e che contribuiscono a garantire oltre le metà dell’offerta complessiva di servizi e la quasi totalità delle iniziative di inserimento lavorativo delle persone con difficoltà di accesso al lavoro. Un insieme composito di organizzazioni che ha dimostrato, già dai primi giorni dell’emergenza, flessibilità e capacità di dar vita a nuovi servizi e di inventare modalità nuove di gestione di quelli tradizionali. Una capacità di reazione ad alto contenuto di solidarietà che tutti in questi giorni hanno loro riconosciuto.
Ma, a differenza dei soggetti pubblici, queste realtà sono tanto preziose quanto fragili: la gran parte delle organizzazioni del terzo settore e delle imprese sociali impegnate nella cura delle persone non si reggono infatti su impianti produttivi industriali o di servizi che oggi possono essere fermati e domani riattivati, né dispongono di patrimoni che possono permettere loro di trattenere per mesi la forza lavoro e mantenere attive le strutture senza garanzia sulle entrate. Queste organizzazioni e in particolare le imprese sociali sono nella maggior parte dei casi edificate su un elemento immateriale come le persone e le relazioni; e se in questa difficile contingenza finissero in crisi di liquidità, non riuscissero a far fronte ai pagamenti e fossero costrette alla chiusura, al momento della ripresa sarà molto difficile riattivarle. Il capitale economico e di coesione sociale che rappresentano andrebbe perduto proprio nel momento di maggior necessità, quello del rilancio.
L’ultimo intervento del governo – il decreto Cura Italia – ha in parte colto la necessità di misure specifiche a sostegno di questo settore. Infatti, accanto alle misure previste per tutte le imprese e quindi utilizzabili anche da quella parte del terzo settore che ha natura imprenditoriale, per le realtà di terzo settore impegnate nella produzione di servizi sociali ed educativi in partnership con le amministrazioni pubbliche, il decreto ha previsto che laddove i servizi gestiti da soggetti privati in convenzione con le amministrazioni pubbliche siano chiusi in conseguenza delle misure di limitazione del contagio, gli enti pubblici committenti sono autorizzati a corrispondere comunque i pagamenti. Le imprese sociali da parte loro dovranno essere disponibili a co-progettare con l’ente modalità alternative di servizio e, in caso ciò non sia possibile, dovranno organizzare il personale in modo da mantenere le strutture pronte ed immediatamente agibili nel momento della ripresa del servizio. In altri termini il decreto consente alle amministrazioni di non interrompere né i contratti né i flussi finanziari, evitando eccessive perdite nei bilanci di queste imprese.
Sono misure innovative e che da diverse amministrazioni – come le Regioni Lazio e Umbria e diversi Comuni – sono già state o stanno per essere applicate. Tuttavia, rischiano di essere insufficienti, perché non interessano tutto il settore e richiedono comunque l’adesione di amministrazioni locali a loro volta con risorse in riduzione. Ma soprattutto non danno quella certezza rispetto al futuro che consentirebbe a molte di queste organizzazioni di reggere un anno con bilanci in rosso.
Tra le possibili misure aggiuntive, due sono di particolare interesse perché decisamente incisive, alcune a costo zero e altre con costi limitati ma a forte impatto sulla continuità gestionale: la proroga di tutti i contratti in essere con le pubbliche amministrazioni fino almeno a fine 2023, con l’eventuale riconoscimento dei soli costi derivanti da rinnovi dei contratti di lavoro nazionali, e l’obbligo – sempre per un periodo limitato – di utilizzare nella scelta dei gestori dei servizi di interesse pubblico e sociale modalità diverse dall’appalto, sia per evitare sia di indebolire ulteriormente le organizzazioni produttrici che l’intensificarsi di pratiche di concorrenza al ribasso.
Una nuova manovra complessiva e mirata è dunque non solo necessaria ma possibile, con costi nulli o molto limitati e la crisi in corso potrebbe diventare anche l’occasione per avviare una vera politica per il terzo settore, spesso auspicata ma che è finora mancata.
*Andrea Bernardoni è membro di Legacoop
*Carlo Borzaga è presidente di Euricse