La strategia di FrancescoA Genova termina l’era Bagnasco e ne inizia una nuova

Con l’elezione del conventuale Marco Tasca ad arcivescovo del capoluogo ligure, in cattedra non ci sarà più la grandeur episcopale del suo predecessore, ma la «fraternità francescana»

A Genova termina l’era Bagnasco e ne inizia una nuova. Con l’elezione del conventuale Marco Tasca a ordinario della principale sede ligure a essere in cattedra non sarà più la grandeur episcopale, incarnata dal predecessore, ma la «fraternità francescana». Che lo stesso neo-arcivescovo si è premurato d’indicare come sua «piccola dote» nella lettera di saluto ai fedeli di Genova.

Ma, al di là di certe autodichiarazioni e panegirismi di circostanza da parte dei media, Tasca non sembra aver dato poi tanto prova di tale fraternità durante i due sessenni di ministro generale dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali (2007-2019). La notizia della nomina ad arcivescovo di Genova da parte di Francesco in data 8 maggio è stata accolta senza particolare entusiasmo tra i conventuali. «Un mediocre tanto sul piano culturale quanto interpersonale», commenta a Linkiesta un docente della Pontificia Facoltà Teologica San Bonaventura.

Al di là di una valutazione così dura, il curriculum vitae del 62enne Marco Tasca (ne compirà 63 il 9 giugno) è contrassegnato da incarichi di rilievo, tutti in seno al suo Ordine, dalla partecipazione come sodalis a tre assemblee del Sinodo dei Vescovi (2012, 2015, 2018) e dalle licenze in Psicologia e Pastorale, entrambe conseguite presso la Pontificia Università Salesiana rispettivamente nel 1986 e nel 1988. Titoli che impallidiscono alquanto se raffrontati con quelli di Bagnasco, che, laureatosi nel 1979 in filosofia presso l’Università degli studi di Genova, fu per 18 anni docente di metafisica e ateismo presso la prestigiosa Facoltà teologica dell’Italia settentrionale.

Vescovo e poi arcivescovo metropolita di Pesaro (1988-2003), ordinario militare per l’Italia (2003-2006), arcivescovo metropolita di Genova (29 agosto 2006 – 8 maggio 2020), Bagnasco è stato creato cardinale il 24 novembre 2007 da Benedetto XVI e dal papa teologo poco prima nominato presidente della Cei (7 marzo). Carica, quest’ultima, che ha esercitato fino al 24 maggio 2017, quando Francesco lo ha sostituito con l’arcivescovo di Perugia, Gualtiero Bassetti.

Il tomista Bagnasco, che dall’8 ottobre 2016 è presidente del Consiglio delle conferenze dei vescovi d’Europa (Ccee), è considerato uno dei presuli di punta del conservatorismo moderato italiano. Se suonano anacronistiche alcune dichiarazioni durante il mandato da presidente della Cei come quelle contro il matrimonio egualitario o sull’assenza di obbligo giuridico da parte dei vescovi di denunciare all’autorità giudiziaria civile casi di pedofilia, vanno riconosciute a Bagnasco un’autorevolezza di fondo, dovuta al suo profilo spirituale e culturale, e una grande sensibilità pastorale, che l’hanno fatto apprezzare dai genovesi. Fedele in questo all’esempio dell’amato cardinale Giuseppe Siri, che resta l’arcivescovo di Genova per antonomasia.

E proprio il richiamo di Siri consente di fare una valutazione – per quanto i paragoni siano sempre odiosi anche perché diverse sono le condizioni socio-culturali già tra un decennio e l’altro – sull’attuale geografia delle principali sedi episcopali italiane. Sedi che, fino a Benedetto XVI, erano indicate come cardinalizie (perché i rispettivi ordinari erano appunto dei porporati) e che con Francesco non sono più tali sulla scorta di una presunta volontà di non favorire il carrierismo.

Motivazione, invero, per nulla cogente perché, trattandosi di diocesi popolose e strategiche sullo scacchiere nazionale (basti pensare a Milano che è la prima al mondo per numero di sacerdoti diocesani), la ratio nel nominarne i rispettivi vescovi, oltre a considerazioni di vario tipo, è stata solitamente basata sulla scelta di ecclesiastici tali da poter essere ammessi al Collegio cardinalizio.

Ora, negli anni stessi in cui Siri concludeva il suo mandato ultraquarantennale da arcivescovo di Genova, a Milano, Torino, Bologna, Napoli e Palermo (solo per citare alcune delle sedi cardinalizie italiane) erano a capo delle rispettive arcidiocesi Carlo Maria Martini, Anastasio Ballestrero, Giacomo Biffi, Corrado Ursi, Salvatore Pappalardo. Inutile fare i nomi dei loro successori in carica perché noti.

A fronte di un quadro generale attuale, che non brilla certamente per nomi di particolare rilievo, unica eccezione sembra essere costituita dal cardinale arcivescovo di Bologna, Matteo Maria Zuppi, figura nota a livello internazionale anche per il suo ruolo di mediatore di pace in Mozambico.

Nel frattempo l’episcopato e i sacerdoti italiani si preparano al 18 maggio, giorno in cui saranno nuovamente consentite, sia pur con tutte le limitazioni indicate nello specifico Protocollo tra Conferenza episcopale italiana e Governo, le celebrazioni liturgiche con il popolo. Questione circa la quale la Cei non ha certamente fatto una bella figura col duro comunicato di attacco a Palazzo Chigi in data 27 aprile e la clamorosa marcia indietro dopo il monito del Papa due giorni dopo.

Marcia indietro concretizzata il 2 maggio dopo l’incontro tra Francesco e il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, che, quella sera stessa, rilasciava un comunicato colmo di elogi per il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e il ministro della Salute Roberto Speranza.

Sempre il 2 maggio l’arcivescovo di Perugia, contattato da Huffington Post, glissava sulla questione della sconfessione del controverso comunicato della Cei da parte di Bergoglio, limitandosi a una citazione: «Chi non conosce le cose finisce come gli asini del Belli “capofitti cadono gli asini, e i galantuomini restano in piedi”». Peggiore riferimento Bassetti non poteva fare non solo perché i versi citati (che correttamente recitano: Ma capofitti cascaron gli asini; Noi valentuomini siam sempre ritti, mangiando i frutti del mal di tutti) sono di Giuseppe Giusti e non di Gioacchino Belli.

Ma anche, e soprattutto, perché il loro significato è tutt’altro: essi sono infatti tratti dal componimento satirico Il brindisi di Girella, dedicato a Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord, considerato in tutto l’800 come l’emblema per antonomasia dell’ipocrisia, del cinismo e del voltagabbanismo.

Se fosse stato vivo, un altro porporato come Domenico Tardini, che, segretario di Stato sotto Giovanni XXIII, era finissimo conoscitore di Belli, avrebbe forse così commentato la questione comunicato e l’uscita di Bassetti: «Annate a mori’ ammazzati voi». Battuta che, come egli stesso racconta nei suoi Diari, gli affiorava spesso alle labbra e che poi si tratteneva dal pronunciare. Ma che, in ogni caso, è indicativa della spontaneità, arguzia e pragmatismo di uomini di una chiesa che fu.

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