L’interessamento del Papa non è solo per l’Italia e la sua diocesi di Roma ma anche per gli altri Paesi colpiti dal Covid-19. A partire da quelli africani, che potrebbero diventare il prossimo epicentro della pandemia.
Non a caso l’Organizzazione mondiale della Sanità ha annunciato la distribuzione di 1 milione di tamponi in Africa per i giorni in corso. E, rispetto a quanto notificato il 17 aprile dal direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, la curva è continuata a salire rispetto all’aumento del 51 per cento e del 60 per cento dei casi e dei decessi accertati nella penultima settimana.
Secondo gli ultimi dati, aggiornati a ieri dal Center for Systems Science and Engineering (Csse) della Johns Hopkins University, sono 23.460 i casi di contagio e 1159 i decessi rispetto agli oltre 18.000 e quasi 1.000 complessivi raggiunti nell’altra settimana. Aumentano però anche i guariti, che dall’inizio dell’epidemia sono 6.070.
Ma, sebbene siano tassi molto più bassi di quelli osservati in alcune parti di Europa e negli Stati Uniti, è da considerare che il numero dei contagi è verosimilmente più alto dato «il significativo gap per accedere ai kit».
Sempre il 17 aprile John Nkengasong, direttore del Centro di controllo delle malattie in Africa (Africa Cdc), rilevava la particolare evidenza della carenza dei test nei due Paesi più popolosi del continente, Nigeria ed Etiopia. Il primo, con quasi 200 milioni di abitanti, ha condotto circa 6.000 test, mentre la nazione del Corno d’Africa, con una popolazione di oltre 100 milioni di persone, ne ha effettuati circa 5.000.
Ecco perché secondo Nkengasong la distribuzione dei tamponi dell’Oms resta ancora molto al di sotto di quanto necessario. «Nei prossimi tre o sei mesi – così il direttore di Africa Cdc – probabilmente avremo bisogno di circa 15 milioni di test».
E poi, come rilevato dalla direttrice dell’Ufficio regionale per l’Africa dell’Oms, Matshidiso Rebecca Natalie Moeti, il virus tende a diffondersi in aree sovraffollate, dove è impossibile praticare il distanziamento sociale, e a spostarsi dalle capitali verso zone interne, in molte delle quali acqua pulita e sapone sono inaccessibili ai più.
Necessario, infine, concentrarsi sulla prevenzione piuttosto che sul trattamento del Covid-19, perché i Paesi africani non hanno la capacità di curare molti pazienti. «Vogliamo ridurre al minimo – così Moeti – la percentuale di persone che arrivano al punto di aver bisogno di rianimazione in una terapia intensiva, perché sappiamo che questa non è assolutamente adeguata nella maggior parte dei Paesi africani. Devo dire che il problema dei ventilatori è una delle maggiori difficoltà che i Paesi stanno affrontando».
Insomma, se non verranno adottati strumenti utili a mettere fine alla diffusione del Covid-19, rischiano di morire tra le 300 mila e i 3,3 milioni di persone in Africa secondo le stime della Commissione Economica delle Nazioni Unite (Uneca).
Da qui la necessità di un «quadro onnicomprensivo con tre fasi» – come dichiarato dal segretario generale dell’Onu, António Manuel de Oliveira Guterres – che comprenda «in primo luogo una sospensione del pagamento del debito estero per i paesi in via di sviluppo che non hanno accesso ai mercati finanziari. Poi opzioni globali verso la sostenibilità del debito e infine affrontare le questioni strutturali nell’architettura del debito internazionale per prevenire inadempienze che portano a crisi finanziarie ed economiche prolungate».
Ricordando poi come «la rete della catena di approvvigionamento del sistema Onu abbia avviato voli di solidarietà per distribuire forniture mediche essenziali in tutto il continente», Guterres ha aggiunto: «Il vaccino deve essere considerato un bene pubblico globale. Tempi eccezionali richiedono una solidarietà eccezionale. E uno dei test più importanti è la mobilitazione con l’Africa».
Mobilitazione già messa in atto il 6 aprile da Bergoglio, quando ha istituito un Fondo di emergenza presso le Pontificie Opere Missionarie, destinando 750.000 dollari Usa e invitando le realtà ecclesiali a contribuire sulla base delle proprie possibilità.
Se è vero che il raggio di azione delle PP.OO.MM. si estende ai tutti i territori di missione – quindi non solo Africa ma anche Asia, Oceania e parte della Regione amazzonica –, è innegabile un’attenzione prioritaria ai Paesi del continente africano, come rilevato dal cardinale Luis Antonio Gokim Tagle.
Il prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, che in quanto tale è anche presidente del Comitato supremo delle Pontificie Opere, ha infatti dichiarato: «Nel suo compito di evangelizzazione, la Chiesa è spesso in prima linea nelle principali minacce alla dignità umana. Nella sola Africa, ci sono oltre 74.000 suore religiose e oltre 46.000 sacerdoti che gestiscono 7.274 ospedali e cliniche, 2.346 case per anziani e persone vulnerabili e istruiscono oltre 19 milioni di bambini in 45.088 scuole elementari. In molte aree rurali sono gli unici fornitori di assistenza sanitaria e di istruzione. Il Santo Padre sta invitando l’intera vasta rete della Chiesa ad affrontare le sfide che ci stanno davanti».
Considerazioni, queste, che avevano già spinto la Conferenza episcopale italiana a decidere, il 3 aprile, lo stanziamento di 5 milioni di euro per interventi di tipo sanitario e un altro milione per la formazione del personale a favore soprattutto dei Paesi africani.
A essere privilegiate nelle richieste di finanziamento, inoltrabili fino al 30 aprile da ospedali e istituzioni cattoliche operanti sul territorio, «saranno soprattutto – come recita il comunicato ufficiale – le strutture più prossime alla popolazione, più periferiche, già facenti parte della rete delle realtà note e sostenute nel passato, dimostratesi efficaci ed efficienti. Saranno inoltre sostenute le iniziative che incentivano nella popolazione comportamenti atti a non favorire il contagio, oltre alla formazione e alla preparazione tecnica del personale sanitario».
L’importanza dei presidi sanitari delle missioni africane è stata rilevata anche da Carmen Bertolazzi, presidente dell’Istituto internazionale di Scienze mediche antropologiche e sociali (Iismas), operante da anni nel Corno d’Africa, che ha dichiarato a Linkiesta: «I numeri per ora sono clementi, se così si può dire, in un continente abituato ad essere flagellato da malaria, polmoniti, dissenteria, colera. Ma si è in attesa dell’arrivo dell’inverno africano e, solo dopo, si potrà capire. Nel frattempo le frontiere delle diverse nazioni sono sbarrate, alcuni paesi hanno decretato lo stato di emergenza e la gente è costretta a restare a casa e a mantenere le distanze. Improponibile, ad esempio, per 2 milioni di persone strette nelle slum di Nairobi e impraticabile per chi sopravvive grazie al lavoro informale per strada. E, infatti, più del Covid-19, si è in attesa della fame. E che senso dare al giusto consiglio di lavarsi spesso e bene le mani quando per conquistarsi una piccola tanica di acqua sporca bisogna camminare per chilometri? Ecco perché è importante il sostegno offerto dalle ong e da donatori internazionali, comprese le missioni che possono mettere a disposizione i loro presidi sanitari presenti anche nelle zone più remote».
Ma l’istituzione del Fondo di emergenza presso le Pontificie Opere Missionarie ha posto il problema della copertura di quei Paesi, su cui ha competenza territoriale la Congregazione per le Chiese orientali e che sono: Egitto, Eritrea ed Etiopia del Nord, Bulgaria, Cipro, Grecia, Iran, Iraq, Libano, Israele, Palestina, Siria, Giordania, Turchia. A sollevare la questione i rispettivi nunzi apostolici a partire da quello in Siria, l’influente cardinale Mario Zenari, e in Israele e Cipro, Leopoldo Girelli, che è anche delegato apostolico a Gerusalemme e Palestina.
A confermarlo a Linkiesta il neo-sottosegretario della Congregazione per le Chiese Orientali, Flavio Pace, che ha dichiarato: «Il Fondo Emergenza Cec (Congregation for the Eastern Churches) è stato istituito il 18 aprile dopo la richiesta di delucidazione da parte di alcuni nunzi apostolici circa il fondo delle Pontificie Opere Missionarie. Si potrà così garantire il sostegno ad alcuni interventi mirati. Anche perché il Santo Padre ha permesso di poter attingere alla Colletta per la Terra Santa, che quest’anno è stata spostata dall’abituale giornata del Venerdì Santo a domenica 13 settembre. Nell’individuare gli interventi da attuare ci si avvarrà della collaborazione della Catholic Near East Welfare Association e della Pontificia Missione per la Palestina, tanto nelle loro sedi centrali quanto in quelle locali, come anche della altre agenzie che compongono la Riunione Opere Aiuto Chiese Orientali».
«Al momento, siccome i nunzi apostolici in Siria e in Israele sono stati i primi a segnalare alcune situazioni di necessità, sono stati garantiti 10 ventilatori polmonari, in collaborazione con Avsi, da suddividere nei due ospedali di Damasco e in quello di Aleppo sostenuti dal progetto “Ospedale Aperti”. Per quanto riguarda, invece, la Terra Santa, tre ventilatori polmonari per l’Ospedale San Giuseppe di Gerusalemme, acquisto e fornitura di kit diagnostici per Gaza e contributo straordinario alle attività dell’Ospedale Santa Famiglia a Betlemme. Siamo comunque nella fase embrionale di studio per quanto riguarda le segnalazioni provenienti da altri territori. Ovviamente cerchiamo di dare priorità ai bisogni più importanti prescindendo da qualsiasi considerazione geopolitica» continua Pace.
Ma, se la decisione di fornire kit diagnostici per Gaza ha riscosso apprezzamento nella chiesa della Sacra Famiglia, l’unica parrocchia cattolica di rito latino della Striscia, e nella popolazione palestinese, non univoca è stata la reazione tra il clero siriano, dove, a partire dell’episcopato locale, si ha un atteggiamento lealista verso il presidente Bashar al-Assad.
A pesare è proprio la posizione di Papa Francesco nei riguardi del Capo di Stato ritenuta, da non pochi, troppo dipendente dalla «narrativa occidentale e imperialista» ma in realtà in linea con quella del nunzio Zenari. A esprimersi in tal senso a Linkiesta uno dei sacerdoti più autorevoli di Damasco, il 91enne Elias Zahlawi, che nel 2017 ha ricevuto dal ministero siriano della Cultura un attestato di apprezzamento per le opere di critica artistica e traduzione.
Abouna Zahlawi, che il 13 marzo ha scritto l’undicesima lettera aperta a Papa Francesco senza mai riceverne risposta, ha dichiarato che «è indubbiamente apprezzabile il dono dei dieci ventilatori come significativo è stato quello dei 6.000 rosari nel 2019. Ma la Siria ha bisogno di altro. Il Papa non può pensare che questi atti, così come i continui richiami alla preghiera per la pace in Siria e ovunque, siano sufficienti a compensare la totale e incomprensibile mancanza di posizione nei riguardi di potenze straniere belligeranti. Credo che una visita del Santo Padre in questa crocifissa Siria, la culla del cristianesimo, potrebbe essere davvero un gesto di peso anziché la consegna di una sua lettera come avvenuto in luglio tramite il cardinale Turkson. Un gesto di peso molto più dell’invio di ventilatori e rosari».