Funzione rieducativaIl problema del lavoro nelle carceri italiane

Dare ai detenuti una formazione e delle competenze sarebbe una soluzione per abbattere la recidiva e far risparmiare soldi allo Stato, ma la politica non sembra interessata a cercare risposte

L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, ma non dietro le sbarre. Il lavoro in carcere rappresenta uno dei pilastri della rieducazione dei condannati, ma anche un investimento sulla sicurezza del Paese. Abbatte la recidiva, oggi altissima, dal 70 all’1 per cento e fa risparmiare un mucchio di soldi allo Stato: ogni punto di recidiva guadagnato corrisponde a 40 milioni di euro.

Nei mesi della pandemia i penitenziari italiani sono tornati al centro delle cronache per le rivolte, le evasioni e le scarcerazioni dei boss. Sono seguite le dimissioni del capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (Dap) Francesco Basentini e le polemiche nei confronti del ministro Alfonso Bonafede, lambito dalla sfiducia parlamentare.

Ma nelle patrie galere la situazione non cambia. Se possibile, si complica. Al tempo del covid, non solo gli istituti penitenziari hanno sospeso le visite coi parenti e i volontari non entrano più, ma anche la maggior parte delle attività lavorative dei detenuti si sono fermate.

Il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, Marcello Bortolato, racconta a Linkiesta: «Il lavoro in carcere è un’assicurazione sul futuro. Ma oggi è visto come una concessione o un favore che si fa al detenuto. I politici non capiscono che quando la pena finisce e restituiamo alla società un detenuto a cui non abbiamo dato possibilità e a cui non abbiamo insegnato un mestiere, molto probabilmente tornerà a delinquere».

Solo il 4 per cento dei reclusi fa un lavoro vero, con formazione, contratto e stipendio. «Non c’è niente di più responsabilizzante. Se vedo che con le mie mani produco qualcosa, quando esco potrò camminare con le mie gambe».

I numeri, però, sono impietosi. Al 31 dicembre 2019, prima della pandemia, su 60.769 detenuti lavoravano in 18.070, cioè il 29,7 per cento. Una percentuale che inganna. Di questi infatti, solo 2.381, cioè il 4 per cento del totale, sono assunti da imprese e cooperative. Gli altri 15.689 svolgono attività alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria: addetti alle pulizie, alla lavanderia e alla cucina, cuochi e manutentori.

Mestieri senza formazione e difficilmente spendibili fuori dalle mura del penitenziario, svolti per poche ore al giorno, pochissimi giorni l’anno. Con stipendi bassi, un terzo in meno rispetto al contratto nazionale di riferimento, a cui poi bisogna togliere le spese di mantenimento. Poco più di un sussidio. «È un modo per tenere calmi i detenuti, che con quei soldi possono comprarsi il cibo o le sigarette», spiega a Linkiesta il Garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma.

Il lavoro vero, quello con formazione, stipendio e orari può migliorare le condizioni delle galere, ma non sembra interessare alla politica. Soprattutto in tempi in cui parole come giustizialismo, manette e spazzacorrotti prevalgono nel dibattito.

«Quella di oggi – riflette Palma – è una politica centrata sull’emotività, in cui la risposta seccamente punitiva viene fatta passare come quella più soddisfacente. Può esserlo rispetto all’adrenalina immediata, ma a lungo andare è la più disastrosa.

Oggi ci sono persone in carcere per pene brevi e ripetute: gente che entra ed esce. Lo Stato dovrebbe investire perché le persone non tornino in prigione. Spesso il lavoro rappresenta anche la possibilità di mandare soldi alle famiglie e riduce il rischio di esposizione alla criminalità».

Sul tema c’è un silenzio assordante. Nicola Boscoletto è il presidente della cooperativa Giotto, che insieme ad altre due realtà fa lavorare 170 detenuti nel carcere di Padova. E non ha dubbi: «Per la politica non è un argomento che paga. Chi fa consenso coi carcerati urla, chi avrebbe motivi per fare qualcosa di buono sta zitto per evitare di perdere voti e prendere insulti. Ma oggi dal carcere le persone escono peggiori di come vi sono arrivate. Questo è un fallimento e non si può far finta di niente. È come un albergo al contrario: in hotel, per far tornare i clienti, li devi trattare bene. In prigione, per farli tornare, devi trattarli male».

Il carcere Due Palazzi è una delle strutture più all’avanguardia per il lavoro. Qui sono impegnati 170 detenuti che rispondono al telefono per i call center delle Asl, per le società di luce e gas, per le Camere di Commercio.

Producono tacchi per l’alta moda e assemblano valigie per Roncato. In questo periodo di pandemia alcuni di loro hanno riconvertito l’attività creando mascherine in tessuto, lavabili e certificate. Poi c’è il fiore all’occhiello: la pasticceria Giotto, un laboratorio premiato dal Gambero Rosso che sforna panettoni e colombe artigianali, ma anche biscotti e torte venduti nei negozi gourmet di tutta Italia.

«Non parliamo di assistenzialismo, ma di attività che stanno sul mercato», spiega Nicola Boscoletto. «Prima si fa formazione con un tirocinio pagato, poi le persone vengono assunte con il contratto collettivo. Se vanno reinserite nella società, devono essere allenate per farlo. E quando al detenuto offri il bene, lui in qualche modo lo coglie».

Per aziende e cooperative sociali che decidono di varcare le soglie dei penitenziari, lo Stato ha previsto incentivi fiscali e previdenziali. Eppure la vita degli imprenditori dietro le sbarre procede tra mille ostacoli.

«È come camminare in un campo su cui ci sono contemporaneamente mine e sabbie mobili», racconta Boscoletto. «Tutto è assorbito dalla burocrazia. Le imprese, alla stregua dei detenuti, devono fare una ‘domandina’ all’amministrazione penitenziaria per ogni cosa che fanno, e questo ci uccide». L’organizzazione carceraria è rigida per definizione.

I controlli sono necessari. Ma in questo contesto impostare il lavoro è sempre più difficile. «Basti pensare che la giornata carceraria finisce alle 15.30», racconta il garante Mauro Palma. «Dopo quell’ora non si possono fare attività, un imprenditore che investe non può stare a questo tipo di logica».

Le realtà di eccellenza si affermano nonostante le difficoltà: nel carcere di Lecce si producono le borse, a Siracusa i dolci, a Torino c’è la “Banda Biscotti”, alla Giudecca di Venezia la sartoria ha cucito gli abiti per il Teatro La Fenice, a Bollate c’è addirittura un ristorante gestito dai detenuti. Nell’isola-penitenziario di Gorgona la cantina Frescobaldi ha impiantato vitigni con cui i detenuti producono vini pregiati venduti anche a New York.

Troppo spesso, però, queste attività sono affidate all’iniziativa di direttori illuminati e imprese volenterose. Manca una regia nazionale, non si vedono sponde istituzionali. Boscoletto racconta: «Da quando si è insediato l’attuale ministro della Giustizia, noi come coordinamento delle aziende che lavorano in carcere, un’ottantina di realtà, abbiamo mandato diverse mail e richieste di convocazione a Bonafede, ma non abbiamo mai ricevuto risposta. Lo Stato dovrebbe togliere gli ostacoli, non metterli».

Il Ministero della Giustizia ha puntato sul lavoro gratuito di pubblica utilità. In base ad accordi con i Comuni, diversi detenuti sono stati spediti a tappare le buche delle strade o a fare manutenzione del verde pubblico. A Roma come in altre città.

Ma il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze Marcello Bortolato non ha dubbi: «È fumo negli occhi nei confronti di un’opinione pubblica che si sente rassicurata dal vedere detenuti che puliscono la città gratis. Non si può imporre un lavoro che dovrebbe essere volontario. E soprattutto questo non è lavoro, non ha una valenza educativa per chi la fa».

Il garante dei detenuti Mauro Palma aggiunge: «Manca la retribuzione, è una modalità che ci fa tornare quasi all’epoca dei lavori forzati». Comunque non come ai livelli dell’Ungheria, dove il premier Orban aveva impiegato i detenuti per costruire i muri anti-migranti alle frontiere.

Come funziona il lavoro dietro le sbarre nel resto d’Europa? In Francia, dove pure la situazione non è rosea, le carceri riescono comunque a far lavorare quasi il 50 per cento dei detenuti. In Germania la legge penitenziaria prevede l’obbligatorietà del lavoro e attualmente i penitenziari tedeschi danno un’occupazione al 65 per cento dei reclusi.

Qui c’è più spazio per le imprese, comprese diverse case automobilistiche. Ma spesso ci sono anche casi di organizzazione “fordista” del lavoro e sfruttamento di manodopera a bassissimo costo.

In Olanda, per i detenuti che lavorano, l’Amministrazione penitenziaria calcola uno stipendio virtuale da cui trattiene le spese di giustizia e mantenimento, per poi dare al detenuto la differenza. Chi accetta questo programma poi ottiene sconti di pena e permessi.

Gli esperimenti più interessanti, però, arrivano da Danimarca e Spagna, dove in alcuni istituti si è attuato un modello responsabilizzante per i reclusi che, attraverso il lavoro, sono chiamati a organizzarsi la settimana anche per quanto riguarda il sostentamento economico.

In Italia la situazione resta immobile, o forse no. «Io vedo una regressione, anche perché la questione carceraria non vuole essere affrontata una volta per tutte», spiega Bortolato. «È difficile far capire all’opinione pubblica che il lavoro ai detenuti, insieme allo studio e alla cultura, è un investimento sulla sicurezza». Il tema però non è all’ordine del giorno.

Spesso non sono sufficienti neppure decreti e circolari. «La legge non basta, servono le persone che la applichino e bisogna dare una speranza a chi è dentro», riflette Boscoletto, che a Padova ha visto diversi ‘miracoli’ dietro le sbarre.

Detenuti che lavoravano e che, una volta usciti, hanno trovato un’occupazione o creato imprese. Chi aveva imparato a fare il pasticcere, fuori ha aperto una pasticceria. Chi si è formato nei call center, ha continuato in quel ramo. «Ma la cosa più bella, nella fatica di percorsi lunghi, è vedere le facce felici di persone che cambiano».

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