Cos’altro poteva succedere?Il regolamento di conti tra giustizialisti (e la nemesi del Movimento 5 stelle)

Quella di domenica è stata una brutta serata per entrambi i co-protagonisti. Alfonso Bonafede è finito stritolato nell’ingranaggio politico-propagandistico da lui stesso fomentato, quel giustizialismo di cui Nino Di Matteo è uno dei grandi ideologi e Marco Travaglio il pifferaio

Piero CRUCIATTI / AFP

Una gran nemesi, un grosso guaio istituzionale, un incredibile parapiglia fra uno dei numi del giustizialismo e il ministro allevato a quella scuola.

Sembra un giallo nel quale i due ex complici si accusano reciprocamente: chi mente? Invece siamo nell’Italia contian-grillina, all’ombra di un’emergenza sanitaria senza precedenti, un Paese nel quale ora il ministro della Giustizia dovrebbe chiarire i fatti, come chiede anche chi lo difende, come il Pd, per non dire di Renzi e dell’opposizione. 

Non ci fosse l’emergenza del Coronavirus la vicenda infatti deflagrerebbe nel Paese reale, in tv, in Parlamento e anche a Palazzo Chigi ma chi prevedesse che tutto finirà a tarallucci e vino forse non sbaglierebbe: quando si toccano questi fili si muore o, appunto, non succede niente. 

Quella di domenica è stata una brutta serata per tutti e due i co-protagonisti. Bonafede è finito stritolato nell’ingranaggio politico-propagandistico costruito negli anni da una certa cultura molto spesso au delà di una limpida concezione dello Stato di diritto, quella cultura giustizialista che da anni elegge i suoi idoli nel segno del primato dell’accusa e nella cultura del sospetto, che ne è, secondo la scuola davighiana, l’anticamera. 

Quel giustizialismo di cui Di Matteo è uno dei grandi ideologi e Marco Travaglio il pifferaio, una ideologia che ha gonfiato le vele del grillismo nutrendo di voglia di manette quell’antipolitica ora giunta al governo: e può anche darsi che proprio questo milieu giustizialista, tramite uno dei suoi eroi, si sia voluta in un certo senso “vendicare” di un Guardasigilli che non ha rivoltato l’Italia come un calzino – altro celebre refrain davighiano – ma che ai loro occhi democristianeggia un po’ troppo. 

Di Matteo desiderava la nomina a capo del Dap. Negata. Può darsi che oggi sia voluto “vendicare” con una modalità assurda come una telefonata alla tv. Il fatto è che due anni fa quella nomina era contrastata dalla Lega e dunque è anche possibile che Bonafede non abbia voluto rivelare questa ostilità per non mostrarsi subalterno al no di Salvini. 

E Di Matteo se l’è legata al dito. Tanto più che egli afferma adesso di essere tornato da Bonafede per accettare il posto al Dap, ma a quel punto il Guardasigilli gli avrebbe detto di aver scelto Francesco Basentini.

Il problema è che il ministro grillino balbetta. Un’altra grana, per lui, dopo tutti i dubbi su un ministro che sinora – come ha scritto su Linkiesta Cataldo Intrieri – «è stato capace di incidere e di varare una serie di riforme, una più forcaiola dell’altra, e di cambiare il volto della giustizia italiana. In peggio, certo, ma l’ha fatto in coerenza ai suoi pessimi intenti: dalla legge Spazzacorrotti con cui ha equiparato il corrotto al mafioso, al blocco della prescrizione, all’indurimento delle misure carcerarie».

Senza contare i tragici fatti delle rivolte nelle carceri – 13 morti -, una storia passata rapidamente in cavalleria. Per Fofò dj essere  accusato da un’icona del Movimento 5 Stelle come Di Matteo – lo volevano persino Presidente della Repubblica – per molti parlamentari pentastellati è una macchia seria. 

E teniamo conto che lui è il capodelegazione del M5s nel governo, la sua è una di quelle poltrone che non possono traballare pena il crollo di tutta l’impalcatura contiana, e di questo si rende ben conto il Pd che pur non avendo particolari sintonie con Bonafede questa volta lo ha blindato pesantemente accusando invece Di Matteo, il quale potrebbe (e forse dovrebbe) essere ascoltato dal Consiglio superiore della magistratura di cui fa parte. 

Ne esce ammaccata una star dell’antimafia. Ne esce male anche il Guardasigilli. Una storiaccia che ripropone lo scontro fra giustizia e politica ma in maniera completamente inedita: non come lotta fra bene e il male ma come dice Matteo Renzi «un regolamento di conti tra giustizialisti», forse un finale di partita per chi ha eletto potere e vendetta all’incrocio della Storia. 

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