Forse c’entra il muro di Berlino, dopo il quale ci è toccato trovare nuovi modi di dividerci. La grande separazione dalla quale siamo tuttora governati risale almeno al 1994, quando quelli che avrebbero poi votato Berlusconi si comportarono come nel secolo successivo avrebbero fatto i sostenitori di Trump, della Brexit, di Salvini: mentirono ai sondaggisti, non tanto circa il proprio essere di destra, quanto circa il proprio essere impresentabili.
Quello elettorale è un effetto secondario, la grande divisione tra presentabili e impresentabili si consuma nelle parole scelte, nei film o nei libri o nella tv che diciamo di apprezzare, nelle posizioni prese in pubblico (gli americani, che fabbricano parole per ogni bisogno, hanno semantizzato anche questo meccanismo: virtue signaling, il modo in cui segnali la tua virtù, il gesto che fai o la parola che dici acciocché gli osservatori anche casuali sappiano che tu sei dalla parte dei buoni).
Ieri Katie Herzog, giornalista americana di quelle che si piccano di dispiacere alla gente che piace (resistere al tic dell’incasellare ogni pensiero secondo le categorie di presentabilità e impresentabilità è uno sport ormai estremo), ha scritto su Twitter una brevissima guida alla presentabilità: «Un buon modo di far sapere che hai le giuste convinzioni politiche e sei quindi una persona perbene è ripostare i meme di sinistra. E anche: l’astrologia, i tarocchi, e qualunque cosa anche lontanamente connessa all’omosessualità e alle sue digressioni». La cosa davvero sorprendente è che, dopo qualche ora, ancora nessuno le avesse dato dell’omofoba. Herzog è lesbica, ma questo è del tutto irrilevante: le accuse d’impresentabilità non si pongono il problema del senso del ridicolo.
Se negli anni 80 compravate dischi, sapete chi è Boy George, il cantante dei Culture Club. Sapete anche che si truccava più di noialtre ragazzine che ascoltavamo le sue canzoni – diciamo che era il Renato Zero d’Inghilterra. A gennaio ha scritto un tweet che diceva «Lasciate i pronomi alla porta», riferito al nuovo vezzo dei presentabili di presentarsi dicendo con che pronome vogliono essere chiamati: poiché non conta la biologia ma solo la percezione, se ho le tette e il rossetto ma voglio ci si riferisca a me al maschile, ho il diritto di pretenderlo. Boy George aveva liquidato l’usanza come «una richiesta d’attenzione». Apriti cielo.
Domenica il Sunday Times gliene ha chiesto conto, lui ha ribadito di trovare tanta suscettibilità una follia, e quindi sono quattro giorni che, nella polemica social inglese, Boy George – uno con la barba e l’ombretto – è transfobico. Mesi fa, a essere transfobica era J.K.Rowling, l’autrice di Harry Potter che aveva difeso una ricercatrice rea d’aver fatto presente a quelli in laboratorio con lei che la biologia esiste. La settimana scorsa era Diego Bianchi, conduttore di Propaganda che su La7 aveva fatto uno sketch con parrucca da donna: era travestito da fase 2, ma perché stare a sottilizzare quando puoi ricacciare qualcuno nel girone degli impresentabili con quei marchi d’infamia che sono le fobie o gli -ismi.
Ci sono i presentabili, gli impresentabili, e poi c’è Fiorello. Che ha evidentemente deciso l’unica cosa che fosse ragionevole decidere di questo delirio: di non prenderlo sul serio. Ospite a un Sanremo di Baglioni, fece un monologo sul “puttan tour”, un’espressione che si usava con disinvoltura negli anni in cui Boy George era primo in classifica, ma che sembra un suicidio adesso – adesso che le puttane forse non s’azzarderebbe a chiamarle così neanche Lucio Dalla, sennò poi su Twitter gli farebbero presente che manca di rispetto alle sex worker (da quando siamo scemi, lo siamo spesso in lingue che non parliamo). Non successe niente, perché una cosa che nessuno ti dice quando Twitter chiede la tua testa è che l’attenzione dei giustizieri social ha la durata di quella di un treenne iperattivo: se non dai retta, passa.
Quando, prima del Sanremo poi trionfale, Amadeus osò dire che la morosa di Valentino Rossi stava un passo indietro rispetto al compagno, l’-ismo con cui si tentò d’incasellarlo come impresentabile fu “sessismo”. Fiorello, cui se fossi Baricco affiderei un corso di gestione delle crisi comunicative, depotenziò il caso facendo di tutto un -ismo. «Qui c’è del plastichismo» quando arriva la bottiglia d’acqua, «qui c’è del bacismo» quando gli ospiti si salutano. Ha rivendicato il trucco l’altroieri, in una diretta Instagram con Amadeus, in cui si è concesso il lusso massimo: ricordare al pubblico per cosa avrebbero dovuto linciarlo per impresentabilità. Quando Junior Cally, rapper già accusato di sessismo (ettepareva), comparve sul palco con la faccia coperta, Fiorello ricorda d’aver detto che, se mai fosse arrivato il virus, l’unico a salvarsi sarebbe stato Junior Cally. Era l’inizio di febbraio. Quando il virus è arrivato, e ogni battuta in merito ha iniziato a essere considerata indizio dell’essere chi la faceva nel migliore dei casi un genocida e nel peggiore Boris Johnson, erano passate settimane. I giustizieri dell’internet hanno l’attenzione d’un pesce rosso, e all’impresentabile Fiorello tocca, mesi dopo, rinfacciarsi da solo le battute invecchiate male.