Dopo Confindustria tocca ai giovani industriali scegliere il proprio presidente. L’appuntamento è fissato al 26 giugno e a contendersi l’elezione c’è anche Eugenio Calearo Ciman. Trentotto anni, vicentino, con sangue industriale nelle vene. Suo padre, Massimo, possiede la Calearo Antenne con 800 dipendenti e soprattutto è già stato alla guida di Confindustria Vicenza e di Federmeccanica nazionale, la più grande federazione di settore di Confindustria. Il figlio Eugenio ha studiato all’estero e ora guida il gruppo giovani imprenditori di Vicenza. Dopo due vicepresidenze, il Veneto prova a prendersi anche un’altra poltrona in Viale dell’Astronomia.
Qual è il senso oggi della giovanile di Confindustria?
I giovani imprenditori devono riscoprire le origini, il motivo per cui il movimento è stato fondato. Confindustria Giovani non è una giovanile di partito né di un club per rampolli, ma un movimento fondato da imprenditori giovani che avevano un’impresa iscritta a Confindustria e non vi si riconoscevano appieno. Avevano deciso di essere coscienza critica e motore del cambiamento della società ed è quello che dobbiamo continuare a fare noi. Avere il coraggio di dire quello che la Confindustria senior non può dire, soprattutto sulla condizione della nostra generazione. Dobbiamo prenderci la delega al futuro del paese. Ma fino ad adesso non sempre le nostre proposte sono state ascoltate come avremmo voluto.
Sulle proposte, supponiamo che lei diventi presidente di Confindustria Giovani: ha mezz’ora di colloquio con i principali ministri del governo, quali sono le richieste che porta al tavolo?
La scuola prima di tutto. Quando un giovane entra nel mondo del lavoro c’è spesso un forte mismatch tra quello che è richiesto dalle imprese e ciò che offre il mercato del lavoro. Le imprese devono essere coinvolte di più nell’istruzione. Un esempio brillante sono gli istituti tecnici superiori che ogni anno diplomano 8mila persone che per il 97 per cento trovano lavoro entro i primi 6 mesi.
E poi?
Il gap tra opportunità di lavoro per donne e uomini. È un divario enorme che non esiste in altri paesi. Persiste perché lo stato ha delegato il welfare alle famiglie soprattutto per la cura dei figli, e quindi bisogna appoggiarsi ai nonni e alle mamme. E poi, per quanto sia brutto dirlo, una donna costa di più rispetto a un uomo a parità di qualifica. Dobbiamo spendere le risorse disponibili per uno sgravio fiscale per l’assunzione delle donne under-35, invece che distribuire soldi a tutti.
Che idea si è fatto sul decreto economico annunciato dal Governo?
Bisogna attendere il testo definitivo perché spesso le insidie sono nei dettagli. Per quanto riguarda il taglio dell’Irap non posso che essere favorevole, è una proposta di Confindustria, come anche sullo sblocco di 12 miliardi per i debiti della pubblica amministrazione, ben venga.
Giudizio positivo quindi?
Le intenzioni sono buone, bisognerà vedere se funzionerà. Abbiamo già visto approvare un decreto liquidità, ma dal punto di vista pratico ben pochi sono riusciti ad accedere ai fondi.
In Veneto Luca Zaia a metà aprile disse «il lockdown non esiste più», perché molte aziende avevano riaperto con il silenzio-assenso dei prefetti. Molti vi criticano sostenendo che le imprese hanno avuto troppa fretta di riaprire. Cosa risponde?
Prima di tutto non mi risulta che ci sia alcun focolaio di Covid-19 nelle imprese venete. In Veneto si è imposto un controllo sanitario a tappeto alle aziende che hanno aperto e non c’è stata alcuna infrazione. Ma d’altronde se le imprese delle filiere strategiche possono lavorare in sicurezza e rispettando le regole e gli accordi sindacali, perché non possono farlo anche le altre?
Voi come avete affrontato questa fase?
Da noi è stata chiusa la mensa, gli spogliatoi, nessuno può entrare in azienda tranne il personale, viene misurata la febbre a tutti. In Veneto siamo abituati a rimboccarci le maniche.
Torniamo ai problemi di sempre. Ogni 10 euro investiti dalle imprese europee in ricerca e sviluppo in Italia se ne investono 6, in media. Da giovane imprenditore, non crede ci sia un problema anche da parte delle imprese sull’apertura all’innovazione e ai giovani?
È un problema culturale. La nostra struttura industriale è fatta da imprese sotto i 20 dipendenti. Nella grande maggioranza dei casi, la governance quindi è in mano alla famiglia. Così anche l’investimento tecnologico non trova ideale applicazione perché mancano competenze. Bisognerebbe iniziare un ragionamento di aggregazione e di filiera per raggiungere la massa critica sufficiente per investire di più in ricerca e sviluppo. Il modello delle pmi è ciò che ha reso grande il nostro paese ma oggi è un limite.
A proposito di imprese, qual è il suo giudizio sulle prime settimane di presidenza di Carlo Bonomi?
Non può essere che positivo, ha saputo battere i pugni sul tavolo. È riuscito a farsi ascoltare, per portare al tavolo le nostre istanze, come il taglio dell’Irap.
Con il ruolo da pungolo che – diceva – deve caratterizzare Confindustria Giovani, qual è la critica costruttiva che si sente di fargli?
Non sappiamo ancora quale rapporto avrà Bonomi con i giovani imprenditori, anche se lui è stato uno di noi. Ci vorrà ascolto, niente di più. Mantenere un dialogo costante.
La sua azienda di famiglia produce antenne per case automobilistiche, quanto è reale il rischio di perdere fette di mercato all’interno delle catene mondiali del valore in cui operate?
Dipende dal prodotto. Nel nostro mercato è vero l’opposto: da noi la produzione era a pieno regime lunedì, martedì e mercoledì, oggi lavorano solo i magazzinieri e domani siamo chiusi (ieri e oggi per chi legge, ndr). Noi italiani abbiamo chiuso e riaperto prima, mentre parte della nostra clientela non ha ancora ricominciato a lavorare. Ci vorrebbe un coordinamento europeo sulle riaperture.
Ultima domanda: quanto ha inciso l’esperienza di rappresentanza industriale di suo padre nella scelta di candidarsi?
Quando mi sono iscritto a 18 anni ai giovani imprenditori moltissimo, vista la sua esperienza da presidente della sezione di Vicenza. Poi c’è chi ancora confonde i nostri nomi sui giornali ma questa è una croce che mi porto dietro da quando sono nato.