Per capire come stia la globalizzazione, e il colpo che le ha dato il Covid-19, basta pensare che oggi un milanese non può prendere un treno per andare a Padova. Come le merci e le persone, anche i virus si spostano. Un mondo più interconnesso ha agevolato la diffusione del Coronavirus. I Paesi colpiti hanno tutti, chi più chi meno, messo in atto “interventi non farmaceutici” che hanno ridotto la libertà di movimento. È il caso di dichiarare la fine della globalizzazione?
Siamo entrati in questa pandemia avendo a disposizione armi inimmaginabili ai nostri avi. Nel giro non di anni ma di settimane è cominciata la sperimentazione sul possibile utilizzo, contro il Covid19, di farmaci che avevamo già. I nostri sistemi sanitari sono stati messi sotto forte stress, ma ciò che ci colpisce è che qualcuno non abbia potuto avere le cure necessarie: resta un’eccezione, non la regola. Proprio il fatto di essere una società incredibilmente più ricca di quelle del passato ha reso possibili lockdown rigorosi: che non a caso non sono immaginabili nei Paesi più poveri.
Estremizzando, sembra quasi che tutto ciò che ha aiutato a preservare la vita e la salute degli individui abbia indebolito la società nel suo complesso. Il fatto che interventi straordinari fossero possibili è risultata una ragione sufficiente per metterli in atto: whatever it takes dovrebbe essere il grido dei disperati, la vittoria “a tutti i costi” viene esaltata da chi sa che l’alternativa è la morte.
Invece è diventato la norma agire senza pensare che ai probabili benefici immediati corrispondono costi certi in futuro. La nostra società ha dato l’impressione di una straordinaria fragilità. La fragilità economica è in parte comprensibile.
Per stare a un esempio di cui si è molto discusso in questi giorni e che ha a che fare con il possibile rincaro del cibo in tutto il mondo, il comparto agroalimentare, negli Stati Uniti, è passato da una distribuzione orientata al consumo “fuori casa” a una tutta centrata sulle rivendite alimentari.
I prezzi sono aumentati (all’incirca del 5 per cento carne, uova e pesce, dell’1,5 per cento i prodotti caseari) per problemi legati non alla produzione ma alla necessità di ripensare la distribuzione. L’industria privata è un meraviglioso organismo che sa evolversi e adattarsi a tutto o quasi, ma non istantaneamente.
La percezione di questa fragilità è stata amplificata dal nostro naturale bisogno di trovare, nel momento del massimo pericolo, un deus ex machina. Nella pandemia, ci sono venute in soccorso forze visibili e forze invisibili. Le forze visibili coincidono con gli Stati e il ceto politico.
Le forze invisibili con la complessa organizzazione della produzione e dei commerci: quella lunghissima catena di cooperazione che ha consentito che i supermercati venissero riforniti, che gli igienizzanti tornassero in farmacia, che i malati trascurati da un servizio sanitario nazionale totalmente assorbito dal Covid continuassero a trovare le medicine.
Così come invisibili sono quelle reti di centri di ricerca e aziende che condividono costantemente informazioni, indipendentemente dal luogo in cui operano, per provare a riadattare terapie usate per altri mali al Covid19 o sviluppare un vaccino. Le forze visibili hanno il volto dei leader politici e un inno nazionale da cantare, alle sei di sera. Le forze invisibili no.
Da che mondo è mondo, un capo cerca di allontanare da sé le responsabilità per rivendicare invece meriti e progressi. Nei prossimi mesi assisteremo sempre più al tentativo di identificare nemici esterni: in alcune parti del mondo è già così. Gli interventi di politica economica coi quali si cerca di ridurre l’impatto di quella che potrebbe essere la più devastante crisi dell’età moderna si accompagnano già a una retorica nazionalista.
In una società che si sente sotto assedio, il “prima gli italiani” sembra l’unica risposta possibile. Serriamo i ranghi non perché vogliamo una nazione, ma perché abbiamo bisogno del conforto di una tribù: un gruppo dal quale sentirci protetti, un capo dal quale farci guidare. Questo dato pre-politico è ciò che assieme consente e consiglia ai decisori una serie di scelte che sfidano anche i minimi criteri di razionalità: quale pazzo investirebbe, oggi, con la certezza dell’imminente tracollo del trasporto aereo, in una compagnia area? La risposta è lo Stato italiano, per il privilegio di vedere il tricolore sulle fiancate degli aeromobili.
Se c’è una cosa che abbiamo imparato nel Novecento è che il socialismo o è nazionale o non è. A limitarlo è la costante pressione della concorrenza: il fatto che ditte di altri Paesi vendano un prodotto che è simile a uno “domestico” a prezzi inferiori decalcifica rapidamente il nazionalismo dei consumatori.
Non impedisce alla politica di proteggere le imprese: la costringe a farlo però in modo più trasparente, con un sussidio che chiaramente finisce nelle tasche di tizio o di caio, anziché restringere il numero di concorrenti surrettiziamente.
Alla stessa maniera, più che le prediche inutili di noi liberisti a ridurre le pretese fiscali degli Stati sono stati gli altri Stati che, con una diversa modulazione di imposte e aliquote, hanno cercato di accaparrarsi preziosa base imponibile. Ma ora, nel momento in cui gli Stati mettono in campo il più vasto programma di provvidenze della storia, è pensabile che accettino di farlo senza erigere nuove barriere?
Pensate semplicemente all’ingresso del pubblico nel capitale delle imprese. Un azionista ha interesse a proteggere il suo investimento. E lo Stato è un azionista particolare: è l’unico che possa proteggere il proprio investimento impedendo alle persone di acquistare un prodotto concorrente. Possiamo davvero aspettarci che non lo faccia?
Non è irragionevole immaginare che le nostre società saranno meno pluraliste, negli anni a venire. Gli ostacoli all’immigrazione si moltiplicheranno. Da una parte, in un mondo che cresce di meno diminuiranno le opportunità che inducono a spostarsi. Dall’altra, se aumenta la dipendenza dallo Stato è naturale che il “prima gli italiani” diventi più forte: in una società che ha bisogno dello Stato per mettere il pane in tavola l’identità nazionale è la prima tessera annonaria. Un nuovo arrivato è un pericoloso concorrente, per un posto alla mensa dei poveri.
C’è qualche ragione di ottimismo? Forse sì. Questi primi mesi di contrasto all’epidemia ci hanno fatto capire che è facile parlare di rimpatrio delle filiere, ma, se usciamo dal mondo del “whatever it takes”, i costi sono elevati e i benefici incerti.
Vale persino per una merce apparentemente semplicissima come le mascherine chirurgiche: che però sono fatte in un certo modo, con un elastico di un certo tipo, con un tessuto particolare, perché qualcuno ci ha già pensato, ha già ragionato sulle alternative, e allora tanto vale rivolgersi a lui. Inoltre, una società impoverita, soprattutto se ha salari molto bassi come quella italiana, potrebbe reggere male a un aumento dei prezzi: e la de-globalizzazione ci porta lì.
La tendenza al ribasso del prezzo dei beni negli ultimi anni riflette i miglioramenti della tecnologia e l’aumento della disponibilità di beni e servizi: in presenza di una chiara restrizione dell’offerta, i prezzi torneranno ad aumentare.
Quel che più conta, il mondo di ieri non era poi tanto male e la privazione della libertà personale ce l’ha fatto comprendere: probabilmente siamo in tanti a morire dalla voglia di prendere un aereo, possibilmente low cost, per passare in una grande capitale europea un weekend di turismo mordi e fuggi, del genere che fa infuriare gli intellettuali.
Dopo la seconda guerra mondiale, coloro che credevano nell’importanza degli scambi per garantire libertà e prosperità si posero il problema di proteggerli attraverso una architettura giuridica appropriata. Non è detto che un regime di accordi bilaterali non possa condurre a scambi più liberi. Ma gli accordi bilaterali sono più facili da rescindere.
L’Unione europea, con tutti i suoi difetti, rende più difficile tornare indietro. Se il movimento delle merci ha rallentato ma non è scomparso, in tutta l’Ue, forse è stato perché l’averle rimosse fisicamente ha reso più difficile chiuderle, le frontiere.
La differenza forse più rilevante è che allora il fallimento dell’autarchia e i suoi costi, economici e politici erano evidenti a una generazione di uomini politici. Oggi invece sembra che i leader non colgano la differenza che passa fra il costruire consenso denunciando la globalizzazione mentre si gode di tutti i suoi benefici e farne a meno.