Nonostante le frizioni politiche, c’è qualcosa che molti paesi europei vorrebbero copiare dai Paesi Bassi: la mobilità urbana. Oggi le grandi città dell’Unione europea si trovano di fronte allo stesso dilemma: come ridurre il trasporto pubblico senza aumentare il flusso di auto private, il traffico e l’inquinamento? La risposta è nella mobilità dolce e nel suo strumento per eccellenza: la bicicletta. Va in questa direzione il piano Strade aperte annunciato dal comune di Milano, il progetto di creare 35 chilometri di nuove piste ciclabili, di cui 23 entro l’estate. Stanno lavorando con la stessa filosofia anche Parigi, Bruxelles, Berlino, Barcellona.
L’ispirazione sono le grandi città ciclabili europee: Copenaghen e, appunto, Amsterdam. Le «mature cycling cities» sono frutto di decenni di programmazione urbana e culturale, che qui proviamo a comprimere in pochi mesi. «Il tema oggi è la rapidità nel cambiamento. L’urgenza attuale stravolge i processi politici e la loro lentezza», spiega a Linkiesta George Liu, direttore dell’Urban Cycling Institute di Amsterdam, uno dei principali centri studi europei dedicati alle due ruote. «La crisi da coronavirus in questo senso rappresenta un esperimento urbanistico senza precedenti».
La buona notizia per Milano e le altre città europee è che gli olandesi non sono nati pedalando, all’inizio degli anni ’70 Amsterdam era ingolfata dal traffico, inquinata e pericolosa per i pedoni. Quaranta anni dopo, la bicicletta è un simbolo dell’identità olandese: nel paese ci sono più di 35mila chilometri di piste ciclabili, il 27 per cento di tutti i tragitti privati nei Paesi Bassi (vacanze comprese) sono su due ruote, solo il 24 per cento delle persone possiede un’automobile (contro il 62,4 per cento degli italiani, per dire).
La cattiva notizia è che per arrivarci c’è voluto molto tempo, una risorsa che le amministrazioni comunali oggi non possiedono in abbondanza. Per accelerare il processo di apprendimento, urbanisti e accademici olandesi sono sempre più richiesti. Uno di loro è Marco te Brömmelstroet, docente di pianificazione urbana all’Università di Amsterdam.
La ricetta che offre agli interlocutori è però complessa e ce la racconta così: «Il catalizzatore sono le ciclabili, ma per cogliere l’opportunità offerta da questa crisi servono anche gruppi di pressione forti e organizzati, perché quando si attiva una trasformazione, parte anche una battaglia culturale. Bisogna cambiare la retorica, spingere le persone a farsi una grande domanda collettiva: a chi appartengono le strade?».
Il suo punto di vista ricalca la storia di come le città olandesi sono passate dal dominio dell’auto a quello della bici: una vicenda di attivismo e politica dal basso prima che di infrastrutture e programmi di governo. Negli anni ’50 e ’60 gli olandesi hanno vissuto, come tutti gli europei, decenni di entusiasmo per le possibilità dell’automobile e le città sono state progettate di conseguenza: strade larghe e veloci, marciapiedi stretti. Il punto di svolta culturale nella società è stata una campagna contro gli incidenti stradali nel 1971. Quell’anno le vittime furono più di 3mila, 400 erano bambini.
La campagna di opinione che ne seguì fu chiamata Stop de Kindermoord, fermiamo la morte dei bambini. La leader era una giovane madre di nome Maartje van Putten, poi diventata europarlamentare. Al Guardian un paio di anni fa ha raccontato: «Erano tempi in cui la politica ascoltava: prendevo il tè con i deputati, pedalammo fino alla casa del primo ministro, che uscì a salutarci». Le proteste si moltiplicarono, nacque il potente sindacato dei ciclisti (ancora molto influente).
I cittadini chiedevano alla politica città con meno automobili e alla fine le hanno avute. È il motivo per cui te Brömmelstroet mette l’attivismo come principale leva del cambiamento: per gli olandesi ha funzionato così, la bici è stata una vittoria democratica. E poi ci sono momenti in cui la storia si allinea in modo perfetto: nel 1973 ci fu lo shock petrolifero, un formidabile incentivo esterno per rinunciare alle macchine e mettersi a pedalare.
Il cambiamento è stato lungo ed è ancora in atto. L’ultima misura ha riguardato i parcheggi per le auto: ad Amsterdam c’è un piano per eliminarne 10mila. Con il turnover delle case, i nuovi residenti non hanno più diritto al posto auto. «C’è stato conflitto politico, ma il punto di caduta è sempre lo spazio, convincere le persone spiegando tutto quello che si può fare in una città con lo spazio lasciato libero dalle auto», spiega Trey Hahn, designer e ricercatore californiano trasferitosi nei Paesi Bassi, dove ha creato Bicycle User Experience, una startup che si occupa di design innovativo di piste ciclabili.
Negli anni ’70 le soluzioni erano quelle classiche: piste e spazi per parcheggiare la bici, integrazioni con la rete ferroviaria, riduzione dei limiti di velocità. Lo strumento urbano per eccellenza però fu un altro: le woonerf, vie residenziali nelle quali è completamente ribaltato il concetto di marciapiede contro asfalto. Non ci sono stop, corsie, semafori, lo spazio è tutto condiviso tra pedoni, ciclisti e (pochi) automobilisti, che lo sanno, hanno limite un 15 km/h e devono comportarsi di conseguenza. Dagli anni ’70 in poi ne furono create circa 6000. Le woonerf contenevano un messaggio culturale all’automobilista: nessun punto della strada è esclusivamente tuo.
E qui arriviamo al punto decisivo: il cambiamento culturale che si è verificato nei Paesi Bassi dagli anni ’70 e che è stato importante quanto le infrastrutture e le politiche sul traffico. Ed è anche la lezione più difficile per Milano: non basta fare le ciclabili, bisogna fare anche i ciclisti. Una ricerca del 2016 dell’Università di Amsterdam ricostruisce questo aspetto della storia, la creazione dell’«infrastruttura umana, che ha incoraggiato la bicicletta sia imponendo la sua presenza fisica per le strade che creando un ambiente sociale favorevole».
È quella che gli attivisti della bicicletta di tutto il mondo chiamano massa critica. Lo studio sintetizza i vari punti che hanno creato e rafforzato l’infrastruttura umana: l’ampia disponibilità di bici a buon mercato, spesso usate (e talvolta rubate), il vantaggio competitivo in termini di tempo e costi rispetto agli altri mezzi di trasporto (compresi quelli pubblici), la pressione sociale dello stile di vita olandese che spinge i nuovi arrivati ad adattarsi. C’è un dettaglio che però colpisce chi è abituato alle città italiane: «Guidare ad Amsterdam è scoraggiato, perché gli automobilisti hanno paura dei ciclisti», l’esatto opposto di quello che succede nelle grandi città italiane.
Torniamo all’idea originaria: il lockdown e le esigenze post Covid-19 sono un esperimento urbanistico. «C’è un grande vantaggio in questo: nuove idee possono essere testate senza essere permanenti, c’è un margine di flessibilità», spiega George Liu. «È un esperimento reversibile, non servono grandi infrastrutture, basta la vernice a terra per iniziare a ridisegnare una città. Poi magari scopriamo che alla gente piace questo stile di vita, e quella è la parte davvero interessante».
Il percorso sarà opposto a quello olandese, dove il il cambiamento è stato richiesto dal basso. Nella trasformazione da coronavirus, verrà proposto dall’alto, e Liu vede un’altra differenza importante: «Di solito sono urbanisti, ingegneri e politici a decidere i piani urbanistici, in questo caso sono invece medici e ricercatori sanitari a volere una città diversa, è una cosa che non vediamo mai, queste figure hanno pochissima voce in capitolo nella programmazione delle città».
Il principio di fondo però è lo stesso delle mamme olandesi che volevano proteggere i bambini dalle macchine: ripensare lo spazio. «Quella che faranno città come Milano è ricerca urbanistica in campo aperto. Magari le persone useranno questo spazio in modo diverso da come lo immaginiamo: forse chiederanno più spazio per i tavoli per i bar, oppure più aree verdi. Il punto non sono nemmeno le bici contro le macchine, il punto è immaginare lo spazio in modo nuovo».