La Corte costituzionale ha detto forse sì, ma non così. La decisione del tribunale di rango più alto in Germania era attesa non solo a Berlino, ma in tutta Europa, visto e considerato che in Germania il diritto europeo è subordinato a quello nazionale e parliamo una decisione dell’azionista più di peso dell’Unione che potrebbe sconfessare il Quantitative easing, uno dei programmi economici di più ampio respiro degli ultimi decenni. Dando in parte ragione ai firmatari del ricorso (tra cui il fondatore del partito di estrema destra AfD Bernd Lucke) che lamentavano l’incostituzionalità del Pspp di Draghi, i giudici di Karlsruhe hanno di fatto chiesto all’Europa di risolvere una volta per tutte lo iato tra politica monetaria e fiscale creato dal Trattato di Maastricht del 1992.
Ma andiamo per ordine. Il ricorso del 2015 era stato demandato Karlsruhe alla Corte di giustizia europea i suoi dubbi sulla legittimità dell’azione della Bce nel Pspp. Secondo gli autori del ricorso, Francoforte stava violando i vincoli dei trattati europei e contravvenendo al divieto di finanziamento del debito dei Paesi. Da Lussemburgo arriva la risposta che dalle risposte ai dubbi della corte tedesca “non è emerso nulla“ che “possa mettere in dubbio“ la legittimità del programma di acquisti, ma l’ultima parola era in mano ai giudici tedeschi.
Nella sentenza pubblicata stamattina si legge che il board della Bce ha tre mesi per dimostrare che le motivazioni alla base del Quantitative easing non eccedano i limiti del mandato di Francoforte e che gli acquisti siano stati proporzionati, altrimenti la Bundesbank dovrà ritirarsi dal programma. «Un worst case scenario che porterebbe alla fine dell’euro», commenta Carlo Altomonte, Professore Associato del Dipartimento di Analisi delle Politiche e Management Pubblico presso l’Università Bocconi. «In ogni caso, per il Pspp, il board non avrà problemi a dimostrare la proporzionalità dell’intervento, visto lo stato dell’inflazione quando è stato creato. Il vero convitato di pietra è il Pepp».
È chiaro infatti che la decisione di oggi acquista rilevanza proprio in considerazione del nuovo programma di acquisti autorizzato per contrastare la pandemia Covid. Nonostante la Corte abbia infatti esplicitamente escluso questo programma dal giudizio, non sarà difficile dimostrare che, almeno in un primo momento, la proporzionalità dell’azione è più che garantita (anche guardando a ciò che, per esempio, sta facendo la Fed). «Il problema — spiega Altomonte — sarà a dicembre, quando la Bce non potrà continuare ad acquistare titoli e i mercati torneranno a porsi domande sulla sostenibilità del debito italiano».
Sembrerebbe una situazione lose-lose. In realtà, sempre secondo il professore, se si vuole guardare tra le righe della sentenza di Karlsruhe si potrebbe trovare quasi un invito a rivolgersi ai recovery fund, invece di continuare a fare gli equilibristi sulle regole dei trattati Bce. Una direzione tutt’altro che opposta alle richieste dei Paesi del sud Europa. «Il giudizio solleva semplicemente il peccato originale dell’eurozona: non si può avere una politica monetaria unica e non condividere la fiscalità. Karlsruhe ribadisce semplicemente che non si può sfruttare la coabitazione fiscale per effettuare trasferimenti fiscali occulti e mai autorizzati», continua Altomonte.
Insomma, aggirare di nascosto il divieto di finanziamento del debito non può essere la soluzione alle crisi della zona euro. Meglio invece puntare su un trasferimento trasparente: «il messaggio che i giudici vogliono far arrivare a Berlino è che servono strumenti di debito adeguati, che la Bce potrebbe invece acquistare serenamente», chiosa.
Un altro aspetto positivo di questa soluzione sarebbe poi la possibilità di togliere il terreno sotto i piedi ai falchi ricorsisti, che non mancano e che più di una volta hanno cercato di dimostrare come il Quantitative easing fosse incostituzionale: con strumenti comuni, infatti, non ci sarebbe più il rischio di finanziare il debito di altri Paesi.
Si tratterebbe del punto da mettere sotto una vicenda annosa: già nel 2017 la Corte costituzionale dovette pronunciarsi sulla legittimità dello scudo antispread, poi mai usato, lanciato dall’allora presidente Bce Mario Draghi. Dopo un rinvio la questione alla Corte di giustizia europea, questa a sua volta stabilì che non c’erano rischi di violazione del mandato Bce.