E così, con l’ex Ilva, siamo ancora punto e a capo. L’incontro del 25 maggio tra governo, ArcelorMittal e sindacati si è concluso con l’impegno del gruppo franco-indiano di presentare un nuovo piano industriale «tra una decina di giorni» che tenga conto dello scenario post-Covid. Doveva essere il giorno della verità. Si temeva l’addio definitivo all’Italia da parte dell’ad Lucia Morselli.
E invece si riapre l’eterna trattativa per salvare il polo siderurgico, ancora una volta trainata dalla multinazionale e non dal governo. Il negoziato però si riapre nel bel mezzo della crisi del mercato dell’acciaio, in grande difficoltà per l’emergenza coronavirus. In pochi ci credono, soprattutto i sindacati, che ora temono sia un bluff dell’azienda.
«Vogliamo onorare gli impegni presi, presenteremo un piano industriale entro dieci giorni, ma gli scenari cambiano ogni 24 ore alla luce dei danni del Covid», ha spiegato Morselli. Ma se per il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri «i dieci giorni di tempo sono ragionevoli», non lo sono per i sindacati. «Dopo mesi di contenziosi legali e a oltre due mesi dall’accordo tra governo e ArcelorMittal, dobbiamo attendere ancora altri dieci giorni per la presentazione del piano industriale.Da novembre abbiamo letto di innumerevoli piani industriali, utopici o di difficile attuazione. Un caos che rischia di ripercuotersi sulla vita di 20mila persone e intere comunità», commenta a caldo il segretario generale della Uilm Rocco Palombella.
«La sensazione è che non ci sia solidità nel gruppo né voglia di portare a termine gli impegni presi», dicono dalla Fim Cisl. E per la Fiom «il tempo è scaduto». Lo stato di agitazione degli operai, da Genova a Taranto, è confermato.
La trattativa è appesa all’accordo del 4 marzo tra governo e ArcelorMittal, che aveva chiuso la causa civile dopo il tentativo di fuga della multinazionale. In quel testo, concordato senza i sindacati, erano previsti gli investimenti green, l’ingresso dello Stato, e soprattutto un piano industriale. Che, come emerso dalla riunione, ancora non c’è. Morselli ottiene una decina di giorni di tregua. Ma è una promessa difficile da mantenere, perché arriva dopo aver bloccato quasi completamente gli impianti di Taranto e con la produzione al minimo storico.
Nell’accordo del 4 marzo non si affrontava il tema degli esuberi, probabilmente il più rilevante. Nel novembre 2019 Mittal aveva quantificato in circa 5mila i posti da tagliare, poi scesi a 3.500. Sui 10.700 dipendenti, oggi proprio 5mila sono in cassa integrazione. Tanti quanti gli esuberi stimati da Mittal. E all’appello mancano pure i 1.700 lavoratori di Ilva in amministrazione straordinaria, per i quali nell’accordo del 2018 esisteva una clausola sociale di salvaguardia. Oltre ai 4mila lavoratori dell’indotto lasciati a casa.
Mittal prima ha avviato la cig per 1.300 operai, poi si è opposta al ricorso alla cassa durante l’emergenza sanitaria, e infine l’ha chiesta per altri mille operai al momento della ripartenza degli stabilimenti. «Un atteggiamento schizofrenico», dicono dalla Fim. «Le modalità con le quali ArcelorMittal ha pensato di gestire la cassa integrazione sito per sito richiamando prima i lavoratori in piena emergenza con le deroghe prefettizie e scaricandoli immediatamente dopo con il ricorso sostanzialmente generalizzato agli ammortizzatori sociali, ha ulteriormente acuito e aggravato un quadro di relazioni industriali che quando non è inesistente, è inaccettabile», dice Re David.
E ora che succede? Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha detto che «lo Stato è disponibile a intervenire direttamente per avere un’Ilva forte, che produca tanto, che sia leader mondiale, che abbia 10.700 occupati, che faccia investimenti significativi con l’intervento dello Stato diretto e indiretto».
L’ipotesi per Mittal potrebbe essere restare, ma a fronte di un impegno ridotto, vista la crisi globale dell’acciaio. Che significa ancora una volta tornare al tema esuberi, di cui i sindacati non vogliono sentir parlare. L’altra ipotesi è lasciare Taranto e pagare una penale. L’accordo di marzo prevede un pagamento di 500 milioni, il governo punterebbe a incassare un miliardo.
Nei giorni scorsi i legali di Mittal hanno già valutato una possibile negoziazione. Entrambe le strade, quindi, restano ancora aperte. E si ipotizza anche un intervento in extremis del presidente del Consiglio Giuseppe Conte con il numero uno Lakshmi Mittal, che lo scorso novembre si era già seduto al tavolo di crisi di Palazzo Chigi. Il 26 maggio il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli riferirà alla Camera sullo stato della siderurgia italiana e sull’incontro con Mittal.
«Siamo all’oscuro dell’accordo del 4 marzo», dice Valerio D’Alò, segretario nazionale della Fim Cisl. «Per noi esiste solo l’accordo del 6 settembre del 2018, che vincolava l’azienda agli investimenti ambientali e alla piena occupazione». Il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli, nel corso dell’incontro, ha ammesso l’errore di non coinvolgere il sindacato.
Secondo quel piano, le parti sociali avrebbero dovuto trovare un accordo sugli esuberi entro il 31 maggio. Ipotesi, evidentemente, ormai svanita. «L’inserimento in golden power è un segnale positivo se da parte del soggetto privato c’è la volontà di tener fede agli impegni», dice D’Alò. «Non vorremmo che lo Stato pagasse gli investimenti ambientali che invece andavano fatti a spese di ArcelorMittal. Prima che partisse il teatrino politico sullo scudo penale sì o no, Mittal stava rispettando i tempi sulle opere ambientali. Poi si è bloccato tutto».
Palombella chiede una «legge speciale per i lavoratori dell’ex Ilva» e «un intervento urgente del governo» per evitare che «degli stabilimenti rimaranno solo le macerie». Cosa succederà in questi dieci giorni? «Ci sono atti concreti che l’azienda deve fare a partire da domani: a Genova il rientro di 650 dipendenti per permettere la rotazione, a Novi ligure devono rientrare lavoratori rispetto ai 30 attualmente a lavoro su 700 totali. A Taranto devono essere riattivati l’altoforno 2, i treni lastri e treno lamiere, gli impianti dell’area a freddo, della manutenzione e dei servizi, con il rientro a lavoro di migliaia di lavoratori», risponde Palombella. «Dall’azienda deve arrivare un messaggio di distensione, altrimenti questi dieci giorni saranno l’inizio di una situazione che può degenerare».
Ma nessuno crede fino in fondo alla volontà di Mittal di restare. Anche perché, fanno notare, in poco tempo dal management dell’Ilva sono andate via molte figure centrali del gruppo. Dallo storico capo del personale al responsabile delle relazioni esterne, c’è già chi ha detto addio al polo siderurgico di Taranto.