Il marziano di TeramoNovant’anni fa nasceva Marco Pannella con il suo canestro pieno di parole

Sbarcò sulla terra da chissà quale pianeta esattamente novant’anni fa: cocciuto, tenace, fedele al suo tesoro di pochi, semplici e generosi princìpi. Tutto questo gli consentì di attraversare il secolo scorso e una parte del nuovo coerente con sé stesso

Dentro una piccola ampolla, nascosta in un luogo inaccessibile, conservo tuttora un reperto dei primi anni Trenta. È un cimelio di guerra. Ma non è un gagliardetto, una spilla o una medaglia, cose che oltretutto custodirei in una teca; in generale non è nulla che cataloghereste tra i cosiddetti militaria

È la miniatura interiore di un guerriero in carne e ossa, un esemplare di fabbricazione abruzzese (la cosa, come vedremo, ha una sua importanza); ma poiché l’ampolla evoca l’immagine dell’homunculus, bisogna subito precisare che l’originale era un omone di centonovanta e rotti centimetri per centoventi chili di peso (dato, quest’ultimo, molto variabile). Parlo di Marco Pannella, sbarcato a Teramo da chissà quale pianeta il 2 maggio del 1930: esattamente novant’anni fa.

Giovanissimo, tra le macerie della Guerra dei mondi scatenata dagli Hyksos e la successiva ricostruzione, il nostro extraterrestre aveva già forgiato l’essenziale della sua armatura ideale, modellata sul rigetto dei totalitarismi gemelli del pianeta nero e del pianeta rosso, un rigetto fattosi viscerale quando a suggellarla venne l’alleanza intergalattica tra i Molotov e i Ribbentrop. 

La tenace, instancabile fedeltà al suo tesoro di pochi, semplici e generosi princìpi gli consentì di conservarlo intatto per più di mezzo secolo; perché, come ogni scienziato sa bene, quando si tratta di mantenere vive in barba al tempo le cose che contano, la cocciutaggine abruzzese vale assai meglio della criogenizzazione.

Così, quando arrivarono gli anni zero, il marziano di Teramo, che era oramai per tutti un marziano a Roma, fu in grado di scrutarli dalla sua torre con quella vista bionica – la déjà-vista, una vista che conosce e riconosce insieme – con cui era emerso dai cataclismi degli anni Quaranta, come nei romanzi di formazione di tanti supereroi. 

Vide in piazza Syntagma gli arrabbiati e gli entusiasti che assediavano il Parlamento, nel 2011, e riconobbe nelle loro facce le stesse facce di allora: sapeva che l’antipolitica nascondeva l’antiparlamentarismo, e questo a sua volta faceva velo all’antidemocrazia. Vide i corpi tormentati dei carcerati, e gli ricordarono gli strani alieni scheletriti che tornavano da quell’altro pianeta; glieli ricordarono in modo così intenso che corse ad appuntarsi in petto il loro stemma, la stella gialla.

Vide che lo sventurato paese in cui gli era capitato di atterrare stava diventando di nuovo, come negli anni Trenta, il focolaio di una pandemia, e a quel male diede un nome e una diagnosi: la peste italiana. E molto altro vide.

Tanto testardamente volle conservare l’equipaggiamento ideale di cui si era dotato sessant’anni prima che, senza neppure accorgersene, lo alterò per restargli più fedele. Da una nozione statica e usurata – “la banalità del male” – la sua memoria ne ricavò chissà come un’altra, tutta nuova e tutta dinamica, che continuava a intestare a Hannah Arendt malgrado fosse sua: “la metamorfosi del male”. 

E in effetti, quel male che aveva portato alla Guerra dei mondi e agli alieni con la stella gialla si era trasformato. E si sta trasformando ancora sotto i nostri occhi. Non foss’altro che per questo, conviene conservare, ciascuno nella sua ampolla segreta, quell’adorabile, insopportabile, irripetibile extraterrestre che ora è atterrato su chissà quale altro pianeta, a calpestare nuove aiuole.

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