Guardate il filmato prima di leggere l’articolo. Bastano le prime scene. È un deposito di neonati commissionati all’azienda ucraina BioTexCom da genitori di diversi Paesi europei, Italia compresa. Sono 46, hanno ovviamente delle madri che li hanno partoriti e potrebbero prendersene cura ma, secondo le regole dei contratti della gestazione per altri, con le madri non ci possono stare, per non creare un legame affettivo. Quindi sono stati radunati in un albergo di Kiev. Stipati in un unico salone e assistiti da personale femminile che, assicura il manager dell’azienda, «li nutre e li lava ogni giorno».
Stanno lì perché l’Ucraina, in seguito all’epidemia, ha chiuso a tutti i voli internazionali e i cosiddetti “genitori intenzionali” non se li sono potuti andare a prendere subito dopo la nascita. Ma ovviamente l’albergo costa, costano le infermiere, il loro vitto e alloggio, i prodotti di cura, il latte artificiale, e quindi il legale della BioTexCom Denis Herman, nella parte finale del video, si appella alle coppie committenti perché, attraverso i loro ministeri degli Esteri, richiedano e ottengano dal governo ucraino “il ritiro in deroga al lockdopwn”.
La vicenda è stata raccontata qualche giorno fa da Marina Terragni su QN e pone un problema anche all’Italia. Sono italiane, infatti, alcune coppie che hanno acquistato i servizi dell’azienda, e quindi la “produzione” di questi bambini. Ma in Italia la gestazione per altri (non userò l’espressione “utero in affitto” che genera sempre polemiche) è vietata e perseguita per legge: basterebbe questo video, con la citazione esplicita del nostro Paese fra i destinatari dei neonati, per imporre un’inchiesta e un’azione governativa a tutela di queste minuscole vite.
È vero: dovremmo riportarli subito in Italia, ma solo per riconsegnarli alle madri biologiche, se li vogliono, o per darli in adozione secondo le normali procedure a qualcuno capace di amare un figlio anche se non ha il suo medesimo Dna.
Nessuno di noi può sapere che fine faranno i neonati di Kiev. È possibile che qualcuno dei committenti si tiri indietro: l’epidemia ha aggiornato le priorità di tante persone, facile che molti desideri di paternità o maternità siano sfumati davanti alle incertezze per il futuro. È possibile che qualche coppia giudichi problematica una consegna a due o tre mesi di vita, dopo l’imprinting oggettivamente traumatico dell’ammasso in una nursery improvvisata (il video mostra immagini di patinata efficienza, ma quel che succede là dentro non lo sapremo mai).
Sono esistenze indifese in balia di un gruppo commerciale che li giudica “prodotti” già venduti e che è palesemente scocciato di doverli tenere in magazzino per chissà quanto, coi relativi costi. Occuparsene è un dovere umano prima che un atto politico necessario posto che, almeno in alcuni casi, la responsabilità di quelle vite è legata alle scelte di cittadini italiani.
La Rete contro l’utero in affitto, composta da molte sigle del femminismo e non solo, ha scritto al ministro Luigi Di Maio e all’ambasciatore italiano in Ucraina Davide La Cecilia perché accerti le effettive condizioni di salute e di vita dei bambini e verifichi se la loro nascita «sia stata in qualche modo segnalata all’anagrafe o se invece la loro esistenza non risulta in alcun atto pubblico, il che comporta il rischio che chiunque possa appropriarsi di loro e per qualunque scopo». Per ora non ci sono risposte.
Più oltre (ma oltre la sorte di creature così piccole, così totalmente in balia degli adulti, c’è ben poco) si pone il problema di perseguire e stroncare i traffici di società come la BioTexCom, la loro propaganda sul territorio italiano, i convegni nei quali vanno a caccia di clienti, la pubblicistica che diffondono per vendere i loro orribili servizi.
La maternità surrogata è vietata in Italia e in quasi tutti i Paesi europei. La sua natura speculativa – che molti contestano rivendicando principi “altruistici” nella scelta delle madri surrogate – è ben evidente in queste immagini, oltreché nella contrattualistica delle aziende del settore, che prevede persino la “sostituzione” del bambino nel caso muoia entro il primo anno di età, come fosse un’auto in garanzia.
Mettersi la coscienza a posto dicendo “noi la proibiamo” non è più sufficiente a scacciare il brivido che suscitano le immagini dell’albergo di Kiev: neonati come bambolotti di carne, senza una madre o un padre che ne possano tutelare l’esistenza nella fase più fragile, senza uno status anagrafico, una cittadinanza, prodotti inermi di una cinica fabbrica delle vite che può farne quel che vuole. Davvero pensiamo sia civile un mondo che lo consente, un Paese che finge di non vedere pur di non occuparsene?