Quello che i Pulitzer non diconoIl giorno in cui è finito il MeToo, forse

Il New York Times ieri ha denunciato una certa leggerezza giornalistica di Ronan Farrow, il paladino del movimento anti Weinstein. E, sempre ieri, con un altro articolo ha spiegato che «credere sempre alle donne» è una trappola della destra

Bertrand GUAY / AFP

Ieri mattina, mentre mandavo mail ad americani che ancora dormivano chiedendo se l’articolo di Ben Smith messo on line nella notte, quello in cui si demolivano la precisione e l’attendibilità del cronista Ronan Farrow (per le cose scritte su Weinstein e non solo), fosse l’inizio della fine del MeToo, il New York Times ha messo on line un secondo pezzo.

Era di Susan Faludi, era su Tara Reade, la donna che sarebbe stata insidiata da Joe Biden, e sul fatto che a lei non si creda, contravvenendo a quel comandamento del MeToo che è «credere sempre alle donne».

Nel 1991 succedono tre cose. Woody Allen avvia la sua relazione con Soon-Yi Previn, che poi è diventata un matrimonio ma anche la sua rovina: la madre di Soon-Yi, Mia Farrow, disconosce lei e dichiara guerra a lui, accusandolo d’avere molestato una loro figlia adottiva; Susan Faludi vince il Pulitzer per il giornalismo divulgativo; sempre Susan Faludi pubblica Contrattacco.

Contrattacco è un saggio sui passi indietro rispetto al femminismo fatti in America in quegli anni. L’idea era venuta a Faludi il giorno in cui si era chiesta se fosse vera quella leggenda che una donna di quarant’anni aveva più probabilità di morire in un attentato terroristico che di sposarsi.

Naturalmente non era vero, ma non lo è neanche che ogni donna che accusi qualcuno d’un reato sessuale dica la verità, no?

Cito Margaret Atwood, per illuminarmi d’autorevolezza riflessa e anche per non prendermi la responsabilità di dirlo io: «Pare che io stia portando avanti una Guerra alle Donne, essendo una misogina filostupro Pessima Femminista. Come sarebbe invece una Brava Femminista, agli occhi di chi mi accusa? Fondamentalmente la mia posizione è che le donne sono esseri umani, con tutta la gamma che ciò comporta di comportamenti santi e diabolici, inclusi quelli criminosi. Non sono angeli, incapaci di malefatte. Se lo fossero, non ci servirebbe un sistema giudiziario».

Certo che ci servirebbe il tribunale, obietterebbero quelle brave: giudicherebbe gli uomini, quei malfattori per corredo genetico.

Ieri, in quel pezzo su Tara Reade, Faludi ha smontato un’altra cosa che ripetiamo senza pensarci, come quella della quarantenne insposabile. «Believe all women», credere a tutte le donne, ha scritto, è una leggenda. Lo slogan, ha ricostruito, viene usato con il «tutte» solo dalla destra che voglia sbeffeggiare le femministe da cancelletto di Twitter. Le quali usano un più parco «Believe women», credete alle donne. Tara Reade esclusa, quindi.

Sì è sempre fatto, almeno da che ho memoria, diciamo nella stagione tra il Pulitzer di Faludi e quello di Farrow (2018). Il femminismo ha sempre riguardato quelle che ci stavano simpatiche, quelle che la pensavano come noi, quelle che dicevano le cose giuste secondo i nostri schemi. Farrow, rimarca Smith nel suo articolo di domenica notte, «ci ha detto quel che volevamo credere di come funziona il potere».

Ovvero: se l’accusato fosse stato meno impresentabile di Weinstein non avremmo creduto senza condizioni a qualunque accusa (come già avevamo fatto per Trump e avremmo poi fatto per Kavanaugh; come non siamo disposti a fare per Biden).

Nel primo articolo di Ronan Farrow sul New Yorker (uscito subito dopo il primo articolo su Weinstein e le sue accusatrici, sul New York Times), Asia Argento diceva, tra le altre cose: che col tempo si era affezionata a Weinstein e avevano avuto rapporti consensuali nel corso di cinque anni; che andavano a cena e lui le aveva presentato la propria madre; che più avanti negli anni lei aveva problemi economici e lui si era offerto di pagare la babysitter della figlia.

Nell’anno successivo Asia Argento è stata intervistata decine di volte da tv e giornali italiani. Ha sempre negato di avere avuto relazioni consensuali, col piglio che avrebbe avuto sentendosi riferire una voce uscita da un pettegolezzo senza fonte, e non affermazioni fatte da lei stessa nell’ambito dell’articolo che l’aveva resa l’eroina del MeToo.

Nessuno gliel’ha fatto notare. Un’eccezione, forse il Pulitzer che ci meritiamo: Massimo Giletti. Quando le ha fatto presente che queste cose erano dette nel pezzo di Farrow, lei ha detto: «Andrà corretto».

Quella volta da Giletti era passato un anno dalla pubblicazione. Il gigantesco equivoco non era stato fin lì corretto (e non lo è stato dopo) perché Ronan è di sciatteria italiana nelle verifiche (sintesi dell’articolo di Smith)?

O perché Asia conosce i suoi polli a chilometro zero e sa che se sei nell’orbita dell’intoccabile del momento puoi dire tutto e il contrario di tutto, persino che sentivi di dover andare a letto col mostro sennò non avresti più avuto una carriera? (Negli articoli su Weinstein, di Farrow e d’altri, ci sono molte attrici che dicono d’aver controvoglia acconsentito perché temevano per la loro carriera, e ce ne sono due che raccontano d’averlo respinto con una certa fermezza. Si chiamano Gwyneth Paltrow e Angelina Jolie, e se pensate che una carriera ce l’abbiano avuta comunque evidentemente vi sbagliate).

A Ronan, d’altra parte, nessun giornalista, in mille apparizioni promozionali (in questi tre anni ha pubblicato due libri), ha chiesto se tutta questa smania di dimostrare che gli uomini sono dei maniaci sessuali venisse dall’irrisolta questione del padre (Ronan è un feroce sostenitore della linea di mamma Mia nelle accuse a Woody di molestie alla figlia allora settenne). L’unico a fare la domanda è stato il comico Stephen Colbert.

Il fatto è che fino all’altroieri Ronan era intoccabile. E quindi non è tanto importante sapere se i suoi reportage abbiano le sciatterie di cui lo accusa Smith, imperdonabili per gli standard d’accuratezza statunitensi, e inesistenti per i nostri (un giornale italiano, se qualcuno gli dice qualcosa, non solo lo pubblica senza verificarlo, ma spesso lo pubblica anche se non è stato proprio detto in quel modo; quando quel qualcuno scriverà al giornale per rettificare, l’ultima parola ce l’avrà comunque il giornalista italiano, che immancabilmente risponderà «Confermo tutto quel che ho scritto»).

È invece interessante sapere: è cambiato qualcosa? E quando? Il pezzo su Ronan del giornale che più si è speso contro Weinstein (e che con Ronan ha condiviso il Pulitzer) è la prima crepa nell’edificio del «Le donne dicono sempre la verità e non hanno mai secondi fini»?

O la prima crepa era Politico che, tre giorni fa, scriveva di Tara Reade che tre anni fa parlava benissimo di Biden e ricattava i padroni di casa cui non pagava l’affitto? (Uh, le urla al victim blaming se qualcuno avesse osato scrivere una cosa del genere di una delle accusatrici di Weinstein. In un cerchio che si chiude, l’avvocato di Reade ha commentato che certo che ne parlava bene: anche le vittime di Weinstein continuavano ad andarci a letto).

Nella prima puntata della nuova stagione di The Good Fight, la protagonista si risveglia in un universo parallelo in cui le elezioni non le ha vinte Trump ma Hillary, non c’è stato nessun MeToo, e Weinstein è stimatissimo dai democratici.

Forse, ormai convinti che il virus li abbia liberati da Donald, gli americani ritengono di non avere più bisogno di dogmi quali «Credere alle donne». Forse, brechtianamente, si ritengono un beato paese che non ha più bisogno di Ronan.

O magari, come mi ha detto ieri un americano, dipende dal fatto che Smith è un nuovo acquisto del Nyt, prima dirigeva Buzzfeed: «Ben è appena arrivato e doveva fare qualcosa di clamoroso per farsi notare» (lo diceva senza acrimonia: è ancora un paese che ha rispetto per l’ambizione).

Forse Ronan è il bersaglio grosso (la sua mamma ne sarà molto fiera). Di sicuro ieri ha confutato con molti tweet la lettura data da Smith del suo lavoro. L’ultimo tweet diceva: «I stand by my reporting». Confermo tutto quel che ho scritto.

Entra nel club, sostieni Linkiesta!

X

Linkiesta senza pubblicità, 25 euro/anno invece di 60 euro.

Iscriviti a Linkiesta Club