Che parli di legami, di mistero o d’avventura, ogni libro è una storia d’amore. E l’ultima raccolta di racconti di Nadia Terranova (Giulio Perrone editore) lo è in modo sfacciato. Fin dal titolo: “Come una storia d’amore”. In una misura insopportabilmente struggente.
A qualsiasi latitudine, in ogni città, succede che senza un legame che la tenga insieme, se non quello di occupare lo stesso pezzo di mondo nel medesimo lasso di tempo, la gente va, viene, si stipa, si allontana.
Quante volte, per strada, restiamo impigliati nel sudore di braccia sconosciute, che non ci sfioreranno più? Quando accade, certo non stiamo a chiederci a chi appartenga quel corpo o quale storia porti con sé. Non ci interessa, non abbiamo tempo né spazio per altri dolori e gioie che somigliano ai nostri e che sono diversi. Ma immaginiamo di tracciare un confine fisico, il perimetro di una città: Roma.
E immaginiamo di guardare tutto dall’alto, come se fossimo un uccello o un drone. Ora prendiamo un punto a caso e scendiamo in picchiata sulla vita di tale sconosciuto. È questo il viaggio che Terranova ci porta a compiere.
Prima verso il basso per ritagliare nel via vai di una Roma caotica, beona, afosa e gelata, popolare, papalina, sfaccettata, sempre riconoscibile, una singola vita. Anzi, un singolo momento di quella vita. Poi, prima che il viaggio stia per concludersi, il tragitto opposto, e cioè di nuovo verso l’alto per afferrare, nella distanza, lo sguardo che raccoglie la vita di ognuno.
Ci sembrerà di confonderci in mezzo agli altri, a quel punto, e ci sembrerà che sia giusto così. «Roma è la città dei sentimenti estremi», scrive Terranova. La si ama o la si odia, a volte la si ama e la si odia insieme.
Come accade con qualsiasi oggetto d’amore, si possono incontrare cieli nuvolosi e inaspettate schiarite, momenti in cui ci sente dentro al mondo e altri in cui l’unico approdo sensato è un porto che non si conosce ancora, ma che è lì, nella vaghezza e nei sogni, nei rimpianti, in un’idea di fuga.
I racconti di Terranova sono struggenti perché parlano tutti di solitudine. E quindi di ricerca della felicità. Le strade che conducono alla felicità sono reticoli ingarbugliati come le strade di Roma.
Indecifrabili come l’intreccio di vite che popolano un desiderio comune: scoprirsi, per una volta e almeno per un po’, senza ombre.
Nella luce dell’autunno romano, la protagonista del racconto “Il primo giorno di scuola”, raggiunge Portico d’Ottavia, al ghetto. Fissa il portone della scuola con la bandiera bianca e azzurra e immagina i bambini all’interno dell’edificio, la lavagna, i grembiuli, i compiti in classe.
Dato che la letteratura, quanto i ricordi, è fatta anche di odori, pure noi, come lei, mentre assecondiamo il suo viaggio verso l’infanzia, non possiamo fare a meno di sentire il profumo di una merenda troppo unta o delle pagine plastificate del libro di testo.
Ognuno ha la sua personale madeleine, un oggetto o un sapore, un profumo in grado di accendere la miccia dei ricordi. Ognuno, poi, ha un ricordo che brucia e che magari ha provato a seppellire in fondo a sé, sperando si trasformasse in cenere.
La protagonista di questo racconto guarda gli scolari all’uscita di scuola. Non le sembrano i figli che potrebbe avere e non ha. Più del resto, le sembrano i compagni della bambina che era. Nel risalire il dorso del tempo, dalla donna di oggi fino alla figlia senza un padre di ieri, la protagonista decide di iscriversi a un corso di ebraico. È qui che si innesca la scintilla che svela a lei una parte di sé e, a noi, l’umore preciso di questa raccolta.
L’ebraico è una lingua fatta di segni per i più indecifrabili e che procede all’incontrario, una metafora perfetta della felicità. È una lingua in cui nulla può essere infinito altrimenti, con la pretesa di assomigliare a Dio, peccherebbe di blasfemia, e in cui tutto deve sapersi contenere.
Chi impara l’ebraico, come chi impara a riconoscersi felice, deve iniziare dalla misura delle cose, non spaventarsi delle inversioni, soprattutto: non peccare di tracotanza. Come quella ragazza che per la prima volta arriva a Termini e, dopo aver lasciato la propria infanzia sul sedile, scende dal treno.
Ad affiorare sulla superficie di ciò che è consueto, nei racconti di Terranova, c’è sempre l’ombra di un nuovo inizio o di un inizio possibile, brutale e struggente.
Come quella ragazza – appunto – che, scesa dal treno, si costruisce mattoncino dopo mattoncino la sua idea di Roma: si può vivere nella realtà e, allo stesso tempo, guardare solo ciò che si vuole vedere; glissare, se si è capaci di farlo; e se si è capaci, inventare.
Ma non sempre il percorso è così lineare. Accolta la solitudine dei personaggi come un moto destinato a rompersi, come una parentesi, alla fine, eccoci dentro i racconti più ruvidi: “Freezing” e “Roma in uscita”.
La città è ancora lì, sullo sfondo, come pure gli amici e i parenti e la gente e le possibilità che le due protagoniste incrociano, forse, e a cui non si aprono, per adesso. Se l’alfabeto dei sentimenti ha a che fare sempre con un inizio, consumato o atteso, è vero anche il contrario.
Esistono e scottano le macerie della fine, passata o presente che sia. Ma ciò nonostante, che si tratti di pieni, di vuoti, di un uomo o una donna, di un desiderio impronunciabile o di uno semplice, di una città oppure di un’antologia di racconti, la prospettiva possibile, sembra suggerirci Terranova, resta questa soltanto: «raccontarsela come una storia d’amore».