Non penso di essere il solo a provare un moto di lieve fastidio, al mattino, di fronte alle consuete venti pagine di schede informative, infografica e vademecum pubblicate dai giornali, che tocca leggere dopo essersi già sorbiti ore e ore di inutili conferenze stampa, frequently asked questions e obsessively repeated answers, telegiornali e talk show, tutti interamente dedicati al Covid: a cosa si potrà fare e non fare da oggi, da domani o dalla settimana prossima; ai parrucchieri che potranno riaprire pure in Lombardia mentre le palestre dovranno aspettare un altro po’ anche in Molise; a come si dovranno prendere gli autobus e a come ci dovremo sedere al cinema.
Non penso sia un problema solo italiano, anche se confesso di non avere avuto la forza di immergermi altrettanto a lungo, dopo la quotidiana dieta informativa a base di coronavirus sulla stampa italiana, pure nella stampa straniera. Ma a un’occhiata superficiale direi che il rischio del Covid overload è ormai un problema globale.
In Italia, semmai, il problema è aggravato dal fatto che persino il virus, con il relativo dibattito, sembra essersi uniformato a quella che da alcuni decenni è diventata la nostra principale specialità: la stagnazione. Non avendo il governo fatto un accidente di niente su nessuno dei fronti aperti, e di cui discutiamo da tre mesi, per forza di cose non ha potuto fare molti passi avanti nemmeno la discussione in proposito.
E così siamo ancora qui, come ogni santo giorno da tre mesi a questa parte, a parlare del modello a tre T – di cui ne avessimo vista una, in questi tre mesi – e della necessità di fare i tamponi, come a Vo’ Euganeo e non come a Bergamo, e dell’app che tuttavia presenta dei problemi di privacy, e comunque non è ancora pronta, ma anche se fosse pronta non ci servirebbe a un tubo, visto che non facciamo i tamponi, che però non servono, e che cionondimeno noi facciamo più di tutti ma non è mica vero, o forse sì, dipende dai punti di vista: un po’ come le mascherine che prima servivano solo ai medici, poi servivano a tutti ma solo per tutelare gli altri, poi anche per tutelare se stessi ma comunque non si trovavano e poi sono diventate obbligatorie anche se non si trovano lo stesso.
E il dilemma tra morire di Covid e morire di fame. E i runner, i congiunti, gli affetti stabili e gli adulteri alla macchia, i vicini canterini e quelli spioni. E i tedeschi che ti credo che si contagiano meno, perché sono più freddi, mentre noi mediterranei siamo più espansivi, ci abbracciamo e baciamo pure tra sconosciuti e abbiamo il droplet nel sangue. E in discoteca come si fa? E in chiesa? E al mare?
Il guaio del Covid overload è che può suscitare due reazioni apparentemente opposte, ma ugualmente pericolose. In chi non ne è stato toccato direttamente, in quei fortunati per i quali l’epidemia ha comportato solo un gran numero di problemi pratici, ma nessuna tragedia personale, il rischio è il rifiuto, la rimozione, la negazione. La reazione di chi, non potendone più, si rifiuta semplicemente di fare i conti con la realtà e si comporta di conseguenza. È l’effetto al lupo-al lupo. E adesso non mi ricordo come finiva la storia di Pierino (suppongo bene, quando è mai morto Pierino?), ma nel nostro caso temo finirebbe comunque peggio.
L’altra reazione è quella di chi l’impatto del virus lo ha subito nel modo più diretto e traumatico, sulla propria pelle o su quella dei propri cari, o magari anche solo psicologicamente, per una particolare predisposizione (pensate ai tanti ipocondriaci e maniaci dell’igiene: a quelli che erano tali anche prima, intendo). Ebbene, non c’è bisogno di aver letto le mille interviste a psicologi e psicanalisti che lo ripetevano, ci arrivavamo anche da soli, ma comunque è generalmente accertato che il non sentire letteralmente parlare d’altro, ventiquattro ore su ventiquattro, per mesi, non è proprio la migliore delle terapie possibili, per cercare di relativizzare il fenomeno, rimanere lucidi e non farsi prendere dal panico.
Senza dimenticare che in fondo, stando almeno a quello che dicono epidemiologi e scienziati assortiti, siamo ancora all’inizio. Come abbiamo ormai imparato a memoria – dai che la sapete: ripetete con me – per il vaccino dovremo aspettare almeno un anno, forse un anno e mezzo (e forse chissà). E insomma, ci piaccia o no – dai che sapete anche questa – con il virus dovremo imparare a convivere, anche per un bel po’.
Ebbene, quanto pensate che possiamo andare avanti a un ritmo simile, su giornali e tv? Per quanto tempo potremo continuare a parlare solo di questo, intendo, prima di impazzire tutti quanti? Che poi la reazione sia la negazione o l’ossessione, in fondo, fa poca differenza.
Forse bisognerebbe cominciare a pensare a rubriche «Corona free», a spazi garantiti dove il lettore, lo spettatore o l’ascoltatore abbiano la rassicurante certezza di non incontrare mai la parola «virus», nemmeno una volta. Non per nascondere o negare la realtà. Al contrario: per mantenere quel minimo di equilibrio e lucidità essenziali per poterla affrontare nel medio periodo.
Non perché una corretta e approfondita informazione non sia essenziale. Ma perché, per poter discutere, valutare e decidere responsabilmente sulle gravi scelte che il coronavirus sempre più ci imporrà, come singoli e come collettività, nei prossimi mesi avremo almeno altrettanto bisogno di leggere, discutere e riflettere su qualcosa che non sia il coronavirus, almeno per dieci minuti della nostra giornata.