Era arrivato a Vienna preceduto da molto clamore, aspettative. Lettere, raccomandazioni. «Ascoltatelo». Era il 1828: aveva già suonato in tutte le città italiane. Era stato dipinto, abbozzato, raccontato, descritto sui giornali, recensito e analizzato. Si erano già levati confronti con altre glorie: il Dante del violino, il Michelangelo del pizzicato.
Eppure la sua apoteosi non era ancora arrivata. Mancava poco e la scena sarebbe stata proprio la capitale austriaca. Per lui era anche la prima volta che usciva dall’Italia. Il mito di Niccolò Paganini stava per nascere.
Al primo concerto erano in pochi, ma quasi tutti violinisti, compresi i migliori. Fu impressionante. Al secondo assistette anche la famiglia reale, imperatrice compresa. Di lì in poi fu un successo continuo. E che guadagni: aveva polverizzato i record. In pochi mesi aveva preso il quadruplo di Schubert in 12 anni. E con solo 14 concerti.
Così Niccolò Paganini, il virtuoso genovese, aveva conquistato il mondo con il suo violino e cambiato con le sue innovazioni tecniche e le composizioni impossibili, la storia della musica.
«Era andato oltre i limiti conosciuti del possibile. In questo senso era anima del Romanticismo», spiega a Linkiesta il musicologo Danilo Perfumo, che a Paganini ha dedicato libri e studi. «Per chi suona il violino è stato uno spartiacque: c’è un ante e un post Paganini».
Anche come compositore «è stato di grande qualità, se pure non al livello di alcuni suoi contemporanei, che pure lo apprezzavano». Come aveva detto Gioacchino Rossini, «meno male che scrive solo per violino». E si sbagliava: oltre ai concerti, si era appassionato per qualche anno anche di chitarra, in cui era diventato un virtuoso. Ma per lui era un passatempo, non si esibì mai in pubblico né stampò nulla di quello che aveva composto per questo strumento.
Del resto, la sua segretezza era diventata proverbiale. Prima dei concerti, spariva. Se suonava con altri, si preoccupava lui di portare le partiture, stando bene attento a non mostrare la parte del violino.
Tutto questo, se unito alla sua straordinaria abilità, contribuì alla nascita di leggende sinistre, strane, soprattutto in un’epoca «incline a credere alle leggende».
E così divenne un musicista demoniaco: faustiano. Per alcuni aveva stretto un patto con il diavolo. O si diceva che avesse imparato l’arte in un carcere, imprigionato per avere ucciso la moglie (tutto falso, anche se qualche giorno dietro le sbarre andò davvero, per una fuitina).
Solo a Praga assecondò il mito, suonando in mezzo al fumo: una baracconata che non volle più replicare. «In realtà faceva tutto in segreto perché non voleva far scoprire le sue tecniche agli altri musicisti».
Una di queste era la “scordatura”, un antico effetto barocco caduto in disuso che lui recuperò. Gli consentiva di cambiare la tonalità mantenendo gli stessi movimenti. In questo modo composizioni «per esempio in Re maggiore, venivano suonate come se fossero in Mi bemolle maggiore», cioè a un’altezza considerata impossibile. Tutti gli ascoltatori si stupivano, l’uditorio era folgorato. «Era un trucco», ma funzionava.
Come del resto erano efficaci altre trovate ad effetto, oggi impensabili su un palco di musica classica: suonava con violenza fino a rompere tutte le corde (le limava prima, per assicurarsi il risultato finale) e rimanere con l’ultima, quella di sol, su cui continuava a improvvisare.
Proprio l’improvvisazione, su cui basava gran parte dello spettacolo, gli costò uno scontro con Carlo Felice, al Teatro Carignano di Torino, nel 1818. Entusiasta dello spettacolo, il principe chiese – come era usanza all’epoca – di ripetere un brano appena eseguito. Paganini si rifiutò: molte parti non le avrebbe potute replicare, in più spesso gli capitava di tagliarsi i polpastrelli. Da qui il detto, entrato nel linguaggio comune. «Non ripete».
Tra concerti, amori, scandali e tournée, Paganini diventa in poco tempo una celebrità. E presto comincia il suo decadimento fisico.
Prima con problemi ai polmoni, forse tubercolosi, cui seguirono cure peggiori del male. Il mercurio gli tolse i denti, la sindrome di Marfan (diagnosticata decenni dopo sulla base delle testimonianze dell’epoca), che contribuì forse all’estrema elasticità delle mani, lo indebolì. Parte della mascella si incancrenì, gli occhi rientrarono.
Un’apparenza spettrale che completò le leggende nere su di lui. Fino a quando morì, a Nizza, il 27 maggio 1840. A causa delle voci che lo associavao al diavolo, fu proibito di seppellirlo a Genova.
Lasciò dietro di sé un mito e un numero imprecisato di composizioni, tra cui i celebri 24 Capricci. E il suono, in un’epoca senza incisioni, che è scomparso con lui.