Alcuni giorni fa ho avuto l’occasione di raggiungere in videoconferenza Mario Cucinella per una lunga chiacchierata sfociata poi in una videointervista per il format digitale “Gocce di Gratitudine” che sto editando per contribuire attivamente al processo di orientamento delle nostre vite necessario in questa occasione unica, se non forse ultima, che la storia ci offre per cambiare ed evolvere il nostro stile di vita e di pensiero.
Ho avuto così occasione di apprendere che l’architetto e designer italiano ma di fama e portata internazionali, sta affrontando il periodo di lockdown a Bologna da dove tuttavia ha continuato comunque a lavorare con tutto il suo team composto da circa un centinaio di persone grazie a tutti i supporti tecnologici che molti di noi stanno sperimentando.
Nel suo racconto è emerso un profondo e autentico apprezzamento del sapore sconosciuto di questo nostro tempo che a causa delle misure di sicurezza sanitarie, o più probabilmente grazie ad esse, è stato improvvisamente e imprevedibilmente sottratto alla nostra precedente eterna competizione, alla nostra precedente costante rincorsa nella macchina del lavoro, della produttività, del fatturato.
Un tempo che ha dunque trovato spazio da dedicare alla riemersione e alla valorizzazione di sentimenti profondi che si chiamano affetto, empatia, amicizia e solidarietà, i quali, oltre a darci una forza immensa ci ricordano che non siamo qui solo per lavorare, siamo qui per costruire una comunità.
Ma cos’è una comunità? Su quali logiche si basa? A quali domande risponde? In primo luogo, risponde alla domanda essenziale che ciascun essere umano si pone: come non sentirsi più soli.
Tutti sappiamo per averlo sperimentato presto o tardi, e comunque di sicuro in questo ultimo periodo, che ci sono molti modi per sentirci soli, soli in senso fisico cioè isolati, oppure soli in quanto privi di legami significativi con altre persone la qual condizione definisce una solitudine più astratta, più dolorosa.
Ovviamente non sempre le due cose si sovrappongono. Esistono i guardiani del faro che fisicamente vivono in solitudine ma passano le nottate a scrivere lettere agli amici lontani, ed esistono le folle solitarie.
Se ci guardiamo intorno purtroppo è proprio quest’ultimo caso quello che ha rappresentato la nostra società più da vicino. Una società che ha digerito senza masticare uno stereotipo che ci ha allontanati dagli altri, dal brivido dell’incontro con ciò che chiamiamo “lontano” o anche solo “diverso”.
Ignorando l’altro ci siamo ritrovati come monadi isolate, capaci di gratificare solo noi stessi con il consumo o con azioni inevitabilmente piatte e superficiali. Ci siamo ritrovati fragili e l’emergenza sanitaria ci ha brutalmente portato l’evidenza proprio di questa fragilità.
Perché una società di uomini solitari non costituisce un insieme, la somma diventa minore del numero delle parti. Oltretutto è anche una società più debole, meno resiliente agli sconvolgimenti di ogni tipo compresi quelli demografici, climatici e alle disruptions prodotte dall’evoluzione tecnologica di cui siamo completamente dimenticati dedicandoci al solo tema sanitario.
Come, dunque, non sentirci più soli? Come abbiamo visto, riscoprendo l’importanza di un cammino con-diviso. Ma come posso riappropriarmi davvero, quotidianamente del gusto necessario dell’incontro con l’altro passata questa fase in cui ci siamo sentiti giocoforza parte dell’insieme?
Vi riporto un passaggio della chiacchierata con Mario Cucinella che risponde esattamente a questo quesito. Parlando di ripartenza, di riapertura e ritorno alla normalità dobbiamo avere la consapevolezza che non stiamo «ritornando a quella realtà meravigliosa che abbiamo lasciato poiché abbiamo lasciato tante cose difficili».
«Questo nuovo spazio che ci si apre davanti dovrebbe essere caratterizzato un po’ di più dai valori profondi che ci legano».
Cioè a dire il ritorno alla normalità che sentiamo agognare a destra e a manca non era il paradiso perduto e sulla base di questa consapevolezza e in ragione di essa che ritengo si debba adesso, in questo momento storico così essenziale, dare il meglio di noi stessi, della nostra tecnologia, dei nostri cervelli.
Questa secondo me è la via maestra per trasformare un momento di crisi in una fonte di rinnovamento. Questa deve essere la nostra vocazione. I segni di una grande rivoluzione morale sono davanti ai nostri occhi, allora le domande che dobbiamo porci oggi sono: «Io voglio essere un attivista di questa ri-evoluzione delle coscienze?», «Io sono pronto?».
Mi piace chiamare questa attitudine Innovability, cioè innovation for sustainability.