Stewed Awakening – Eater, 20 maggio
Lasciamo per un attimo da parte l’argomento principe di tutte le nostre discussioni da inizio marzo a oggi. La scorsa settimana in questa rubrica ci siamo occupati del caso Alison Roman, e oggi vale la pena ritornarci e anzi, soffermarci un attimo su questo longform del critico culturale Navneet Alang. Il tema è complesso, articolato, per certi versi molto americano, per altri di sicura applicazione al contesto europeo e italiano: si parla di cibo, di media gastronomici, di whiteness, e di appropriazione culturale. Insomma, di come ci sia un universo mainstream di cuochi e celebrità gastronomiche che riesce a costruire il proprio successo sul privilegio di essere bianco e sull’appropriazione più o meno consapevole dell’esotico e dell’etnico. Quella americana è una cucina inevitabilmente multiculturale, essendo gli Stati Uniti un paese multiculturale, ma la cosiddetta color line continua ad avere un peso enorme ai quattro angoli della nazione. Come scrive Alang, «ciò che definiamo come contemporaneo e di moda nel cibo è legato all’essere bianchi come norma culturale, e alla sua abilità nell’incorporare altre culture senza di fatto diventare quelle culture». Lo sdoganamento di ingredienti di origini asiatiche, sudamericane o africane passa spesso attraverso un filtro bianco, un loro adattamento nel nome e nell’uso in un contesto che diremmo occidentale. Cuochi e celebrità bianche usano questi ingredienti appropriandosene, e senza riconoscerne le radici, se non in modo superficiale. Ci sono ovviamente delle eccezioni, come Samin Nosrat, autrice di “Salt, Fat, Acid, Heat”, ma appunto di eccezioni si tratta. Lo dicevamo, il tema è complesso e sfaccettato, ma vale davvero la pena spendere qualche minuto per leggere l’articolo: magari ci renderemo conto una volta di più del legame profondo che sussiste tra ciò che mangiamo e la nostra identità.
Blue Hill in a Box – The New Yorker, 15 maggio
Ne abbiamo visti (e ne vedremo ancora) di cuochi che lanciano nuove idee, che si affannano per reinventarsi, e che in qualche modo cercano di parare i colpi di un’emergenza che ha incrinato le fondamenta del mondo della ristorazione. Tra questi non poteva non esserci Dan Barber del Blue Hill at Stone Barns di Bedford, cuoco, grande pensatore gastronomico, autore di un libro bellissimo come “La cucina della nuova terra” e icona del movimento farm-to-table. Soprattutto non poteva non esserci con una riflessione in grado di aprire altre riflessioni: insomma, partendo dalla constatazione del fatto che il modello farm-to-table così come lo aveva pensato si è sgretolato alla prova del coronavirus (i contadini che vendevano principalmente alla ristorazione si sono ritrovati in ginocchio), ha ideato resourcED, una proposta di box con prodotti alimentari e materiale informativo in grado di replicare un pezzo del percorso gastronomico del Blue Hill ma, soprattutto, di aprire gli occhi sul percorso e sulle caratteristiche del cibo. Un po’ agricoltore, un po’ cuoco, un po’ guru. O come dice Dan Barber stesso in questo articolo di Hannah Goldfield, un po’ meno cuoco di ristorante, un po’ più food processor, trasformatore di cibo. E in questo concetto troviamo in effetti la sublimazione del ruolo sociale del cuoco, che non solo porta la materia prima nei nostri piatti, ma la racconta e la valorizza, e così facendo accresce la consapevolezza e l’istruzione gastronomica di noi semplici (umili) mangiatori.
The New Face of Restaurant Hospitality Wears a Mask – The New York Times, 18 maggio
Stanno riaprendo i ristoranti, anche qui in Italia. Nonostante il via libera generalizzato, con regole a dire il vero non così chiare e di univoca interpretazione, i ristoratori si stanno muovendo in ordine sparso: chi riapre, chi no, chi forse ma solo all’aperto, chi non sa. E c’è da capirli. Negli Stati Uniti la situazione è ancora più frammentata, con decisioni diverse da Stato a Stato, e una maggiore libertà concessa ai ristoratori stessi sulle misure precauzionali da prendere. Quindi questo articolo di Kim Severson risulta utile per censire scelte e reazioni: c’è chi si attiene al protocollo mascherina e guanti, chi non toglie tavoli dalla sala ma qua e là ci fa sedere dei manichini, chi personalizza le mascherine per renderle meno respingenti, chi lascia scegliere al cliente se vuole un cameriere mascherinato oppure no, chi si lancia in iniziative di protesta plateali (con conseguenti chiusure forzate). E soprattutto c’è una clientela varia: da quello che preferisce il liberi tutti a quello che senza misure sanitarie adeguati al ristorante non ci va proprio, e comunque se ci va lo fa con un pizzico di timore.
I ristoranti riaprono. Ma perché io non ho voglia di tornarci? – Munchies, 18 maggio
Dicevamo del timore nel tornare al ristorante, e in effetti qui Giorgia Cannarella riassume un po’ di paure e di inevitabili differenze rispetto all’esperienza della cena fuori rispetto al periodo pre-coronavirus. Di sicuro bisognerà sforzarsi un po’ tutti, clienti e ristoratori, per costruire un’atmosfera in cui ci si senta a proprio agio. Ne ha parlato anche Anna Prandoni qui da noi, nel suo editoriale.
A proposito di ristoratori che si interrogano sul presente e sul futuro del loro mondo, ecco un articolo molto emotivo, che tocca corde personali ma si porta dietro anche un messaggio di una certa profondità: qui Giorgio Scarselli, patron del ristorante Il Bikini di Vico Equense, racconta che cosa gli ha insegnato questa pandemia.
Daydreaming of your first meal out after lockdown? – The Guardian, 17 maggio
Jay Rayner (sempre lui) si chiede dove andremo la prima volta a mangiare fuori alla fine del lockdown ristorativo. Lui sceglierà la cucina francese, anche perché è cucina da ristorante che si adatta pessimamente (salvo rare eccezioni) al delivery.