La crisi sanitaria ha colto l’Italia impreparata sullo smart working e le altre forme di telelavoro subordinato e autonomo. Secondo l’ultimo rapporto Istat “Cittadini, imprese e Ict”, nel 2019 un italiano su tre non ha mai usato Internet, il 25 per cento delle famiglie italiane non ha una connessione, e oltre il 41,6 per cento degli internauti ha competenze digitali basse.
Il rapporto Desi (Indice di digitalizzazione dell’economia e della società) della Commissione europea situa l’Italia in buona posizione rispetto alla media Ue in quattro campi: connettività e servizi pubblici digitali, diffusione dei servizi di sanità digitale (sopra la media Ue), open data (quarto posto) e copertura della banda larga veloce. Tuttavia l’Italia era al 24° posto tra i 28 paesi Ue (Desi 2019) per velocità della connessione. Ovviamente il dato si riferisce a quando c’era ancora il Regno Unito nell’Unione europea. Dietro di noi solo Polonia, Grecia, Romania e Bulgaria.
Tradotto: in Italia la rete è diffusa ma molto lenta. Per dire, la Romania ci surclassa per copertura di banda veloce e ultraveloce (55 per cento e 75 per cento contro il 24 per cento dell’Italia) e la Bulgaria, già Silicon Valley dell’ex blocco orientale, non è da meno, considerato anche che il settore IT nel paese cresce del 17 per cento all’anno.
Davanti a tutti c’è il virtuoso nord Europa con in testa Finlandia e Svezia. Quel che aiuta il paese più digitalizzato d’Europa è l’alto livello di competenze digitali (76 per cento) molto oltre la media europea, soprattutto tra le giovani donne e, cosa non trascurabile, di donne specializzate in ICT (22 per cento). Percentuali lontane dalle nostre: i giovani (16-24 anni) italiani sono all’ultimo posto in Europa per utilizzo di Internet.
Ma in questo momento il vero asso nella manica per la Finlandia è l’ampia disponibilità di tecnologie 5G, dove la maggior parte dei paesi Ue è ancora molto indietro, e l’avanguardia nel campo dell’Intelligenza artificiale.
L’accesso a internet non basta più per valutare il progresso digitale di una nazione: la differenza sta nella velocità di connessione. A una velocità maggiore corrisponde più produttività per le aziende, così per il lavoratore autonomo in studio e l’impiegato in ufficio, ora a casa in smart working. Competenze digitali avanzate e banda ultra larga vogliono dire più attività eseguite online e più vendita di prodotti e servizi per le piccole e medie imprese.
In Italia invece solo il 7 per cento delle Pmi vende online, contro una media Ue del 17 per cento. Secondo l’Osservatorio smart working, il lavoro agile è ancora poco diffuso tra le aziende italiane, pur con un picco del 58 per cento tra le grandi imprese. Il problema sono quelle piccole poco interessate a introdurre lo smart working tra i dipendenti.
L’Eurostat (2018) ci dice che la media europea dei lavoratori subordinati in regime di lavoro agile nel settore privato o pubblico è dell’11,6 per cento, contro un misero 2 per cento per l’Italia. E pensare che ben 8 milioni di lavoratori italiani potrebbero lavorare in smart working. Cambierà con il coronavirus? Vedremo.
Svezia e Olanda, dove la cultura del lavoro agile subordinato è ormai radicata, conducono la classifica con il 31 per cento, mentre la Francia è al 17 per cento. Invece è molto basso l’8,6 per cento della Germania. Un dato che non sorprende se si conosce la sua struttura basata su una grande industria manifatturiera restia al lavoro agile. Non a caso l’Italia è la seconda manifattura d’Europa. Romania e Bulgaria, campionesse di connettività, chiudono però con lo 0,4 per cento e lo 0,3 per cento, per via di una scarsa digitalizzazione dell’economia e bassi livelli di digital literacy.
C’è anche da dire che la definizione di smart working varia da paese a paese e che in alcuni stati, per carenza di modelli lavorativi differenziati, equivale a quella più generale di “telelavoro”. Perché tanta riluttanza in Italia? Per via di un approccio improntato al controllo visivo del lavoratore, invece che ai risultati conseguiti.
C’è poi la questione delle tante partite Iva (soprattutto giovani) alle quali viene richiesto di lavorare come veri dipendenti in azienda. L’Italia è uno dei paesi con più autonomi, ecco perché quel 2 per cento risulta ancora più avvilente.
In tempi di coronavirus e di lavoro agile “forzato”, sarebbe convenuto all’Italia essere meglio equipaggiata per raggiungere quell’Europa «pronta per l’era digitale» auspicata dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Un’Europa che nella nuova strategia digitale propone, continuando quanto già avviato nel 2018, un piano d’azione per l’istruzione digitale al fine di renderle competenze di base.
Tra le varie misure, la Commissione punta a riformare i regimi d’imposta sulle società perché non tengono conto dei nuovi modelli imprenditoriali del mondo digitale. Un dossier su cui stava lavorando la commissaria europea per l’agenda digitale, la danese Margrethe Vestager prima della crisi del coronavirus.
L’obiettivo di Bruxelles è far circolare i dati all’interno dell’Ue tra i vari settori, come illustrato nella comunicazione sulla strategia europea per i dati uscita a febbraio 2020. Ovvero è creare un vero mercato unico dei dati in tutta l’Ue a beneficio di imprese, ricercatori e pubbliche amministrazioni. Va da sé che tali obiettivi richiedono una connettività ultraveloce in tutta l’Unione, che dovrà essere implementata in tempi rapidi. In tal modo, le imprese saranno incoraggiate a introdurre più massicciamente modelli di lavoro flessibile.
L’emergenza sanitaria promette di rendere lo smart working la nuova frontiera del lavoro in Italia e nell’Ue. Sotto il suo impulso potrebbe accelerare l’innovazione e l’alfabetizzazione digitale. Per non parlare del contribuito agli obiettivi per il clima.