L’autista di un treno sta conducendo una locomotiva con i freni rotti. Sul binario ci sono cinque persone legate e incapaci di muoversi e il treno è diretto verso di loro. Tra la prima carrozza e le persone legate si trova uno scambio ferroviario, da cui parte un secondo binario parallelo sul quale è presente una sola persona legata. Il capotreno si trova davanti a due opzioni: non fare nulla e lasciare che il treno prosegua dritto la sua corsa, uccidendo le cinque persone, oppure azionare lo scambio e ucciderne una sola.
Il dilemma etico che le nostre società stanno affrontando in queste settimane non è diverso dal problema di filosofia ideato da Philippa Ruth Foot nel 1967. Quante persone siamo disposti a mettere in pericolo di morte per non uccidere l’economia?
La fase due della gestione della pandemia dipende da quale risposta si dà a questa domanda. Un’analisi costi-benefici, se vogliamo utilizzare il linguaggio crudo dell’economia. David Carretta qualche giorno fa scriveva sul Foglio che un dibattito su «quali rischi siamo disposti ad affrontare e a quale prezzo è più indispensabile che mai». La convivenza con il virus in effetti ci obbliga a porci la questione, almeno fino alla scoperta e alla diffusione globale di un vaccino.
Una stima difficile
Nella cosiddetta fase uno, quella dell’ansiosa attesa giornaliera del picco del contagio, tentare un dibattito di queste proporzioni prima di prendere la decisione di chiudere tutto sarebbe stato probabilmente velleitario. Le decisioni venivano aggiornate di ora in ora e il rischio di sbagliare qualcosa ci appariva enorme e soprattutto non stimabile.
Per quanto ci si provasse: lo studio dell’Istituto superiore di sanità, che stimava lo scenario peggiore possibile in 151mila posti occupati in terapia intensiva entro l’8 giugno, aveva enormi intervalli di confidenza, e risaliva a fine aprile quando il virus era già studiato da più di 3 mesi. Sono proprio queste due caratteristiche – entità e prevedibilità del rischio – a determinare il fallimento di mercato delle assicurazioni, cioè di chi della stima dei pericoli ne fa un mestiere.
Quando un rischio diventa troppo grande o difficilmente stimabile, il mercato delle assicurazioni fallisce e scompare.
C’è chi però ha provato a fare una stima dei trade-off tra vite umane e perdite economiche: Carlo Favero, Andrea Ichino e Aldo Rustichini hanno pubblicato i risultati di un modello il cui risultato è semplice ma fondamentale: le scelte che possono salvare più vite umane e allo stesso tempo ridurre i costi economici della prevenzione sono quelle moderate e che restano distanti dagli slogan estremi volti a chiudere o riaprire tutto.
E c’è un ulteriore elemento di analisi che gli economisti stanno studiando: «Stiamo osservando i dati sulla mobilità forniti da Google», dice a Linkiesta Carlo Favero, professore di finanza alla Bocconi, «e ci stiamo accorgendo che nelle regioni italiane esistono differenze tra quanto le persone si spostavano ogni giorno, nonostante fossero in vigore le stesse regole di distanziamento sociale. Differenze che potrebbero essere spiegate dal numero dei morti nelle regioni. Se si potesse dimostrare questo legame, che per ora è solo una correlazione, significherebbe che le persone hanno adattato il loro comportamento sulla base delle notizie locali e andrebbe quindi rivisto il ruolo della misura di lockdown sulla riduzione del contagio».
L’immunità di gregge psicologica
Ma le ragioni del panico diffuso nella prima fase del contagio non vanno ricercate solo nella gravità della condizione epidemiologica delle regioni. La percezione del rischio è un fenomeno sociale, non sanitario. A esserne convinto è Paolo Legrenzi, professore emerito di psicologia cognitiva all’Università di Venezia: «Non sapevamo nulla del nuovo virus, non potevamo vederlo né conoscevamo i suoi effetti, e questo ci ha fatto un’enorme paura in una prima fase. Come tutti i rischi che non conosciamo e non possiamo controllare, a prescindere dal pericolo reale. Per capirlo basta osservare questo semplice grafico: i cerchi sopra la retta si riferiscono alla paura che provoca un determinato evento, quelli inferiori ai danni reali che vengono provocati».
«È la dimostrazione – spiega il professor Legrenzi – che la paura non è sempre legata al pericolo: si temono gli eventi imprevedibili e a cui non siamo abituati, non quelli effettivamente più pericolosi. Prendiamo ad esempio il rischio di attacchi terroristici: sono imprevedibili e non sappiamo chi e quando potrebbero colpire. Per questo terrorizzano le persone, nonostante provochino un numero bassissimo di morti all’anno nei paesi occidentali. Il rischio di ripercussioni negative dal consumo di alcol o droghe, per esempio, è molto più alto, ma poiché lo conosciamo tendiamo a tollerarlo».
Sta accadendo lo stesso con la percezione del rischio del nuovo coronavirus. Stiamo raggiungendo un’immunità di gregge psicologica e la paura si sta velocemente sgonfiando. Fino ad alcune settimane fa sarebbe stato impensabile che la maggior parte delle persone intervistate in una delle aree colpite dal virus rispondesse di temere di più gli effetti economici della recessione rispetto a quelli del contagio, come ha mostrato il recente sondaggio di Demos sul Nord Est Italia.
Secondo Legrenzi il panico del virus scomparirà presto e non lascerà effetti su come le società occidentali concepiscono i rischi: «Ci dimenticheremo presto della pandemia e del lockdown, la velocità con cui la grande paura ci è piombata addosso sarà pari a quella che ce la farà dimenticare».
D’altronde si sa, la mente umana non concepisce il tempo come i modelli matematici: è molto attenta alle perdite a breve termine – gli studiosi lo chiamano loss aversion bias – ma si disinteressa del medio-lungo termine.
È bene distinguere paure e pericolo anche perché le prime possono avere un effetto molto più devastante del rischio in sé. Prendiamo l’attacco alle Torri Gemelle: per qualche anno molti americani per via della paura di atti terroristici sugli aerei preferirono utilizzare le automobili per spostarsi.
L’effetto fu un aumento degli incidenti mortali sulle strade americane, che secondo gli studi dello scienziato cognitivo Gerd Gigerenzer causarono circa il triplo delle vittime sui quattro aerei utilizzati nell’attacco terroristico dell’11 settembre.
Le opportunità della fase 2
La fase due però ci consente di valutare i rischi: riusciamo a predirli e controllarli meglio, la paura è scemata e la necessità di riaprire le attività economiche e tornare a una vita sociale è diventata più impellente. Abbandonando la velleità di rincorrere il rischio zero, che non esiste in alcuna situazione, e accettando un certo grado di pericolo.
Per riuscirci i governi nazionali non possono tuttavia affidarsi solo a virologi ed epidemiologi, altrimenti si continuerebbe a concentrarsi solo sui costi sanitari dell’epidemia. I medici vedono solo una parte del problema, quella che studiano.
Non è un caso che i risultati di un sondaggio compiuto tra gli studenti di un’università del Sud Italia mostrino che gli iscritti a facoltà economiche e sociali danno più priorità alle preoccupazioni economiche, e quelli di discipline scientifiche – tra cui medicina – ai costi sanitari.
Se la percezione del pericolo è un fenomeno psicologico e sociale, la decisione di quanto rischio si è disposti ad accettare non può che essere lasciata alla politica. «Le organizzazioni sono definite non tanto dai rischi che riescono a identificare e gestire, ma da quelli che decidono di ignorare», ha detto l’esperta di risk management Anette Mikes al Financial Times in un articolo ripreso anche dal Foglio.
Le istituzioni democratiche possono aggregare le preferenze personali, e nel caso della gestione della pandemia anche le percezioni del rischio di ognuno. Ma non senza fatica: le democrazie occidentali riscontrano livelli di sfiducia terribilmente elevati e per questo sono svantaggiate rispetto alla concorrenza del modello cinese che può contare su una dittatura decennale e una cultura collettivista.
E ancor peggio è messa l’Italia, con livelli di rispetto e fiducia sociale più bassi che in altri paesi europei: una condizione che rende più difficile attuare un controllo egualitario – quando ognuno nella comunità volontariamente protegge gli altri indipendentemente dalla propria percezione del rischio, come lo chiama Anette Mikes – e più probabile invece il modello gerarchico di regole e concessioni che in effetti conosciamo bene.
Tenuto conto di queste difficoltà, la ricerca di un equilibrio tra economia e salute risulterà più facile che nelle ultime settimane e alla lunga non potrà che giungere alla conclusione che non sono in contrapposizione. Opportunità economiche e condizioni di salute vanno infatti a braccetto.
Cosa rimarrà quindi della grande paura del 2020? Se la sua eredità sarà duratura lo vedremo di certo nella finanza, il settore che più di tutti sa dare un prezzo al rischio.
Carlo Benetti, market specialist di Gam, società di gestione patrimoniale che amministra più di 100 miliardi di euro, è convinto che le conseguenze ce le lasceremo alle spalle: «Non credo che il coronavirus sia un fenomeno catartico che cambierà il nostro stile di vita. È invece un acceleratore di fenomeni già presenti. Sui mercati finanziari torneremo ai tassi bassi, a cui già siamo stati abituati, ma alla terza o quarta potenza rispetto al mondo pre-Covid. La certezza di rendimento senza rischi non esisterà più e quindi il pericolo che si prospetta è una rinuncia alla sicurezza per la ricerca di rendimenti appetibili».
In un mondo però molto più indebitato rispetto a prima. Nella finanza la grande paura del coronavirus ci porterà a prendere ancora più rischi. Se non è un paradosso questo.