È successa una cosa molto grave, che si aggiunge ai numerosi comportamenti maldestri di cui si è reso protagonista questo governo sul fronte della comunicazione o, meglio, della disinformazione: lunedì alcuni ambienti governativi hanno risposto alle diffuse critiche sulla mancata apertura del 4 maggio passando ai giornalisti un rapporto del comitato tecnico-scientifico, indicando loro il numero di 151 mila possibili terapie intensive che si sarebbero rese necessarie l’8 giugno nel caso Giuseppe Conte avesse invece riaperto buona parte delle attività.
L’indomani tutti giornali ovviamente hanno riportato la notizia, e soprattutto quel numero minaccioso, a sottolineare la saggezza della prudente decisione del governo. Solo che quello era uno scenario definito ieri «irrealistico» dagli stessi ricercatori del comitato tecnico-scientifico, cosa che nel passare la velina ai giornalisti gli ambienti governativi hanno preferito non far notare.
Ci siamo accorti di quello strabiliante numero di possibili terapie intensive, 151mila a fronte di un picco massimo all’apice della curva di poco più di 4 mila, perché un rispettato manager come Giovanni Cagnoli ha scritto che quei conti non gli tornavano, gli sembravano esorbitanti e frutto di un errore di calcolo. Dubbi condivisi anche da un professore ordinario di statistica epidemiologica dell’Università di Tor Vergata, Alessio Farcomeni, sentito da Linkiesta, così come dal direttore dell’Istituto Mario Negri Giuseppe Remuzzi in un’intervista al Corriere della Sera.
Ieri mattina, durante una lunga conferenza stampa, i ricercatori incaricati dall’Istituto superiore di sanità hanno difeso la loro metodologia di calcolo, che ancora non convince Cagnoli e Farcomeni, ma la cosa più importante detta dal ricercatore Stefano Merler della Fondazione Kessler è che quello dei centocinquantunomila pazienti in terapia intensiva era uno scenario «non considerato come realistico» dagli stessi che lo hanno ipotizzato, perché possibile dal punto di vista teorico soltanto se i cittadini e le istituzioni si dimenticassero di questi mesi passati in emergenza sanitaria e, una volta usciti di casa, approcciassero la vita quotidiana senza precauzioni come all’inizio della pandemia, ovvero senza dispositivi di protezione, senza rispettare le norme sanitarie e senza la minima conoscenza delle caratteristiche di trasmissibilità anche asintomatica del virus.
Ora, dal punto di vista della ricerca statistica, ovviamente ci sta prevedere il caso estremo e, appunto, «irrealistico», ma la mistificazione di questi giorni non riguarda i modelli matematici, la correttezza della metodologia e l’esattezza del calcolo, cosa che lascerei agli studiosi.
La questione è politica: per giustificare una scelta, peraltro anche condivisibile, di non far ripartire a pieno ritmo il paese, si è scelta la strada di far trapelare attraverso i mezzi di comunicazione un dato, quello dei centocinquantunomila possibili pazienti in terapia intensiva, che secondo i ricercatori, testuale, era stata calcolata «solo per darci un’idea di quello che potrebbe succedere ignorando che cos’è Covid», ma ben sapendo, ancora testuale, che «nessuno di noi si comporterà in un modo così sciocco da non assumere un minimo di protezioni».
Delle due l’una: chi ha passato quel documento ai giornali, indicando quel numero stratosferico e senza avvertire che era riferito a uno scenario irrealistico, o lo ha fatto non avendo capito lo studio del comitato tecnico scientifico oppure lo ha fatto con l’intenzione di manipolare l’opinione pubblica. Il dibattito è aperto su quale delle due ipotesi sia più preoccupante per il nostro paese.