C’è ancora molta strada da fare. In fatto di competenze e di eterogeneità nella composizione dei consigli di amministrazione delle società pubbliche non quotate, come rileva l’analisi realizzata da Crisci & Partners per conto di Gruppo Cap, le best practice di corporate governance sono poco rispettate.
Lo studio ha selezionato 25 società (con analisi relativa al 2018, ultimo anno di cui erano disponibili i dati) come campione rappresentativo dell’universo delle società non quotate a controllo pubblico, sia per quanto riguarda la suddivisione degli enti di controllo (ministero dell’Economia, Enti locali, Regioni) sia per la tipologia dei servizi erogati (multiutilities, finanziarie regionali) sia per il tipo di composizione del consiglio di amministrazione (cioè comprendendo anche società con almeno tre membri in consiglio, compreso l’amministratore delegato).
Quello che è emerso è che, come spiega Alberto Amaglio, partner della Crisci & Partner, «i referenti politici, e azionari delle società, identificano e nominano, di norma, Amministratori Delegati o Presidenti Esecutivi con un adeguato livello di competenze ed esperienze manageriali e gestionali nel ruolo», mentre «non sono applicati i necessari criteri di qualità ed esperienza nella selezione dei consiglieri».
Le competenze considerate dalla ricerca, che – si sottolinea – si è basata sulla visione dei curricula pubblici dei consiglieri – sono sei: esperienza manageriale (o gestionale), esperienza e conoscenza nel settore (o in settori simili), esperienze professionistiche, il profilo istituzionale, esperienza di governo societario, capacità di lettura e interpretazione dei dati di bilancio.
Si tratta delle principali skill professionali che, secondo trend ormai ampiamente consolidati nelle prassi di board consulting, devono essere a vario livello presenti in un consiglio per svolgere il suo ruolo statutario di indirizzo e controllo sulla gestione dell’azienda.
Il quadro che ne esce è quello di un sistema pubblico che, in larga misura, non applicherebbe i criteri di una sana governance oramai di prassi nelle aziende quotate, comprese le grandi aziende a partecipazione prevalente dello Stato, le quali, al contrario in Italia sono state e sono all’avanguardia nelle politiche di miglior governo societario.
«Un consiglio composto da membri non sufficientemente competenti e/o aperti», dice Amaglio, «concorre a svalutare il suo ruolo generale. E ciò non solo nella sua funzione di controllo, ma anche in quella, preziosa, di aiuto all’Amministratore delegato nella formulazione del piano di azienda e nel sostegno informato delle sue scelte».
Risultato? «Un consiglio d’amministrazione svilito e, di fatto, l’imposizione della figura dell’amministratore unico».
Al contrario, un consiglio esperto e articolato nelle competenze è strumentale nel garantire l’attenzione a tutti i portatori di interesse (che nel caso di società pubbliche sono i cittadini) e non solo agli azionisti e ai loro dividendi, mentre il peso prevalente dell’Amministratore unico è il contrario di una buona governance.
Purtroppo è stata proprio quest’ultima la tendenza innescata dalla riforma Madia: la rinuncia in nome di un’interpretazione superficiale della spending review ad avere e incentivare un modello di governance delle società pubbliche privo di consiglieri di amministrazione competenti.
Esisterebbero soluzioni intermedie? «Certo. Un consiglio con cinque componenti, compreso il Presidente e l’Amministratore delegato, sarebbe sufficiente. Ognuno di questi, però, dovrà essere altamente competente in un’area specifica: manageriale, societaria, regolatrice. O anche relativa ad aree funzionali all’azienda, come l’innovazione o la digitalizzazione»-
Aiuterebbe anche un sistema trasparente di identificazione delle candidature pubbliche, «come avviene ad esempio per il Comune di Milano, che emette bandi pubblici e ha costituito una piccola commissione alla quale partecipano, pro bono, due qualificate società di executive search che esaminano le candidature presenti sulla base di criteri oggettivi e con indipendenza di giudizio».
In più, servirebbe anche un cambiamento per gli emolumenti dei membri non esecutivi del CdA: «Il massimo che abbiamo riscontrato è un caso di 50mila euro annui, con un minimo di 10mila. La media lorda è 19mila. Si capisce che, per un ruolo che espone a un rischio professionale e reputazionale alto, i più competenti e quotati preferiscano altre cariche in altre società».
Sulla diversità di genere, invece, si rileva una nota positiva. Nonostante non siano società quotate, per cui non soggette alle normative sulle quote “rosa”, la presenza femminile è alta, almeno dal punto di vista numerico: 60 per cento uomini e 40 per cento donne. Equilibrio che scompare quando si tratta di amministratori delegati e presidenti.
Ma attenzione: «Pur essendo molto basso il livello di competenza degli uomini, quello delle donne, se si può dire, lo è anche di più». La ragione è che «le scelte sono state fatte subito dopo l’entrata in vigore della legge. Si trattava perciò di selezioni fatte su un campione poco noto, ed era difficile trovare, sufficientemente diffuse, le competenze distintive necessarie».
Nel frattempo l’esperienza dà competenza e nelle quotate – e si spera, accadrà anche nelle non quotate – e il livello sta migliorando, forse migliorerà sempre di più.
A questo proposito, «la regola d’oro nel processo di refreshment della composizione dei CdA alla scadenza di ogni singolo mandato triennale prevede che si sostituisca circa 1/3 dei componenti». Ciò per garantire la necessaria continuità di conoscenza dell’azienda e contemporaneamente adeguare il mix di competenze esistenti ai cambiamenti di contesto, mercato e tecnologie della realtà esterna.
«In un consiglio classico servono almeno due anni perché i componenti acquisiscano familiarità e conoscenze specifiche, e solo se si impegnano».
In un arco temporale di nove anni, «considerato come limite» i primi tre servono per acquisire pienamente la conoscenza necessaria del settore. I secondi tre per applicarle al meglio. Gli ultimi tre per completare il ciclo e predisporre gli orientamenti che gli azionisti dovranno darsi nel definire la composizione del successivo CdA in un’ottica di medio termine.
Sostituire la grande maggioranza dei consiglieri in un colpo solo, addirittura al termine del primo triennio, come accaduto, può contribuire a indebolire il CdA proprio in un periodo storico in cui «il pubblico può tornare ad avere una sua centralità».
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