Stefano Bacchelli è un ragazzo di 32 anni, cresciuto a Caglieglia, un paesino della Toscana con 100 abitanti in tutto.
Sentire la sua voce attraverso whats app, da una vpn che fa ponte per permettergli di stare sui social network in diretta da Shangai dà la dimensione del suo cambiamento epocale.
Ma tra il paesino toscano e la megalopoli cinese da 28 milioni di abitanti il passo non è stato uno, e l’esperienza nemmeno. Perché Stefano ha fortemente voluto questa avventura ed è arrivato alla stella Michelin del ristorante Da Vittorio a Shanghai dopo tanti anni di formazione, di viaggi, di gavetta in giro per il mondo. Con una sorta di cordone ombelicale sempre legato alla famiglia bergamasca che più di ogni altra incarna l’ospitalità all’italiana, i Cerea da Brusaporto.
E dopo 8 anni di collaborazione continuativa e di soddisfazioni all’interno della realtà ‘da Vittorio’, il passo verso la Cina e verso la responsabilità del ristorante è stata la quadratura del cerchio.
Di sicuro però, Stefano non avrebbe mai pensato che una pandemia l’avrebbe portato al centro di un viaggio andata e ritorno di quelli da film hollywoodiano.
Insieme ad altri quattro colleghi si è trasferito a Shangai un anno fa: «Abbiamo aperto ufficialmente l’8 giugno – racconta a Gastronomika – dopo un mese e mezzo di startup, e da lì in avanti è stata un’escalation di emozioni e duro lavoro. Siamo stati molto colpiti per come la clientela ci ha accolti, poi a settembre è uscita la Guida Michelin e abbiamo ricevuto la prima stella ed è stato incredibile. Ovviamente eravamo molto soddisfatti, e quella è stata una spinta in più per cercare di fare ancora meglio. Da ottobre a dicembre abbiamo lavorato tantissimo, è stato quasi inaspettato. Anche gennaio è andato molto bene. Avevamo in programma di chiudere per il capodanno cinese, io avevo programmato le ferie proprio per le prime due settimane di febbraio a seguire, perché sapevo che in quei giorni non ci sarebbe stato nessuno in città. Poi la doccia fredda: il 21 gennaio abbiamo avuto la conferma che questo virus si stava diffondendo.» La città di Shangai si svuota, tanta gente era già tornata nelle città natali per festeggiare in famiglia la ricorrenza, e quei pochi rimasti iniziano ad aver paura di uscire. Le mascherine diventano la nuova normalità e per Stefano comincia un periodo rocambolesco, fatto di dubbi, viaggi, ripartenze e quarantene.
«Si avvertiva una paura strana, qualcosa che non è visibile ma che senti dentro. All’epoca non sapevamo molto, non eravamo a conoscenza di ciò che stava avvenendo. Quando una cosa non la conosci fa ancora più paura.»
Insieme alla famiglia Cerea e all’investitore cinese del ristorante, i ragazzi decidono di rientrare in Italia, ma le cose non sono facili come sembrano. Le compagnie aeree sono in tilt, e alla fine Stefano prende coraggio e decide di andare in aeroporto con i bagagli e di salire sul primo volo disponibile. All’atterraggio, in Italia, ad aspettarlo c’è un controllo della temperatura e il consiglio, in caso di sintomi, di contattare il numero di emergenza.
«Sono stato contattato due volte in 14 giorni dal ministero della salute per sapere come stessi. Per fortuna sono sempre stato bene, alla fine stavo facendo la mia vita tranquilla, ero abbastanza contento di essere con la famiglia in Italia e di essere lontano dall’epidemia. Ma poi è scoppiato tutto anche qui. dopo due settimane di lockdown sono tornati i dubbi. La domanda grande era sempre la stessa: torno o non torno in Cina? Abbiamo riflettuto molto, anche con la mia compagna, che abita a Milano e sarebbe rimasta da sola. Il dubbio era se continuare a inseguire il mio sogno e il mio impegno, oppure rimanere fino a data da destinarsi. Non c’erano nemmeno voli disponibili, quindi sono stati giorni davvero complicati.»
Ma alla fine il volo si trova e dopo un ‘pratico’ 36 ore Milano-Roma-Etiopia-Shangai Stefano e i suoi colleghi riescono a riprendere la via per la Cina, non senza tante ansie per la loro quarantena una volta arrivati a destinazione, dove i controlli – rispetto all’Italia – erano raccontati come molto più serrati.
«Sapevamo di dover fare la quarantena obbligatoria una volta tornati, ma non sapevamo dove l’avremmo dovuta fare. Quindi ci siamo attrezzati con scatolette varie di cibo a lunga conservazione e kit di sopravvivenza, per evitare di dover stare negli hotel Covid con i pasti consegnati dalle mense, abbiamo fatto la valigia da scout e siamo partiti. All’arrivo siamo stati sottoposti a mille stop: task force di medici per controllo della temperatura, verifiche incrociate per capire da dove venivamo, e per canalizzare bene gli arrivi. Dopo i controlli doganali purtroppo siamo stati divisi in base al distretto nel quale abitavamo e ai miei compagni di viaggio è andata peggio che a me. A loro è stato assegnato un hotel, mentre io sono hpotuto rientrare a casa e fare la mia quarantena da lì. È stato un momento commovente perché speravo davvero di poter stare almeno a casa mia. Mi hanno accompagnato fino a casa, i medici mi hanno fornito un termometro a mercurio, dei documenti e un disinfettante per la spazzatura, da mettere fuori casa una volta al giorno. Hanno montato una telecamera di sorveglianza fuori dalla porta di casa e da lì sono cominciati 14 giorni di reclusione. Per fortuna avevo la playstation…»
Al ricordo del momento Stefano non si scompone, ma la voce si fa più sottile quando ricorda la gentilezza e la cortesia dei medici che lo andavano a trovare e che lo chiamavano per verificare le sue condizioni di salute: «La cosa che mi ha colpito è stata la grande umanità e gentilezza che mostravano i dottori, continuavano a ringraziarmi per la mia disponibilità e la collaborazione. Alla fine ero io a dover ringraziare loro per l’estrema sensibilità con cui mi hanno trattato.»
Al 15 giorno visita di controllo di rito e Stefano ha finalmente il qr-code verde nella sua applicazione obbligatoria: «La app sul telefono è diventata un lasciapassare indispensabile: per entrare ovunque dovevi mostrare il codice. Il mio è stato giallo per tutta la quarantena ed è diventato verde e ora mi permette di lavorare, andare al ristorante come cliente ed entrare ovunque.» Da fine aprile i controlli sono molto diminuiti, ma a seconda del distretto e del locale possono essere più o meno stringenti, anche se la mascherina è ancora obbligatoria.
Il ristorante è di nuovo attivo e Stefano e i suoi colleghi sono tornati alla loro normalità.
«Siamo rientrati molto carichi: avevamo tutti voglia di tornare e cercare di dare il massimo. Ci siamo subito messi in moto per il cambio carta, per invogliare le persone a tornare a trovarci. Abbiamo subito visto una ripresa, aprile è stato un mese buono, siamo stati contenti. Il personale è tornato ad essere al 100% operativo, siamo riusciti a mantenere tutti con il salario minimo durante la crisi, senza licenziare nessuno. Qui lavorano tanti ragazzi che vengono da fuori Shanghai e sono rientrati. Ad aprile c’è stato un vero rilancio, complici anche le belle giornate e la stagione splendida, soleggiata e con un bellissimo cielo celeste. Piano piano la gente aveva voglia di uscire e godersi pranzi e cene, i ristoranti con la parte esterna hanno lavorato davvero un sacco. Devo dire che l’unica cosa che ho visto cambiare è la fascia oraria preferita: le persone preferiscono uscire a pranzo invece che a cena, forse è una cosa psicologica, ma al calare della luce la gente preferisce andare a casa.»
E anche al ricordo della condizione ritrovata Stefano si commuove: «Mi ha colpito molto come quasi tutti i clienti che conosco perché vengono spesso si preoccupassero per come stavo e mi chiedessero della mia famiglia in Italia. Mi ha molto toccato, non me l’aspettavo. Ma loro amano l’Italia, in tanti hanno viaggiato nel nostro Paese più di me. Alla fine ci hanno preso un po’ a cuore per la nostra filosofia: il nostro è un ristorante fine dining con uno stile familiare, dove il calore di casa è importante.»
E dopo un ottimo aprile anche maggio promette bene: «Dall’1 al 5 maggio ci sono state le vacanze ma la gente è rimasta tutta in città. Tutti i ristoranti erano pieni, finalmente abbiamo visto strade piene, parchi in cui le famiglie facevano pic-nic e grigliate. C’è stato un segnale di ripresa, si è percepita fortissima la voglia di tornare alla normalità. Qui penso che già oggi possiamo parlare di normalità, anche se non voglio esagerare con l’entusiasmo.»
Prima di salutarlo abbiamo chiesto a Stefano, che vive in un futuro prossimo che toccherà presto anche a noi, se voleva dare qualche consiglio ai suoi colleghi italiani: «Sono convinto che quando tutto riaprirà anche lì ci sarà del buono per tutti. Il popolo italiano è intelligente e sa godersi la vita.
Gli aiuti servono sicuramente, forse i ristoratori italiani potrebbero fare gruppo prendendo esempio dalla Francia. La ripartenza ci sarà e sarà netta. Non mancherà la materia prima, che in questo periodo in Italia è fenomenale, quindi speriamo che tutti tornino nella loro normalità e riescano a sostenere le proprie famiglie. Ci sarà clientela: la gente ha voglia di uscire. Posso solo consigliare di fare le cose con moderazione, e di credere nel proprio staff e cercare di aiutare tutti i collaboratori. Il rapporto umano è sempre quello che fa la differenza. So che è un impegno economico, ma continuare a investire nelle persone è fondamentale perché sono loro che fanno la differenza. Sempre.»