Dimenticate Philip Roth (“Il complotto contro l’America”), Sinclair Lewis (“Da noi non può succedere”) e anche il grande Philip K. Dick (“La svastica sul sole”). Sono altre le storie da leggere per prepararsi alle elezioni americane di novembre.
Per esempio, sarebbe il caso di soffiar via la polvere da un romanzo di Eugene Burdick, “Il successore”, pubblicato in Italia da Longanesi nel 1964, che racconta la scelta di un candidato repubblicano estraneo all’establishment e indaga su quel “nuovo mondo sotterraneo” di esperti di ricerche di mercato, cibernetici e analisti dei dati che occupano l’invisibile cabina di regia delle campagne elettorali.
Il titolo originale è “The 480s”, e uno dei personaggi spiega perché: «Per l’analisi di un’elezione nazionale hanno quattrocentottanta gruppi. (…) La gente non sa neanche di far parte di un gruppo, perciò non comportatevi come se la vostra adorata democrazia venisse violentata in mezzo a una strada. Hanno esaminato tutte le statistiche che ne valevano la pena e dopo un bel po’ di lavoro, hanno tirato fuori quattrocentottanta gruppi che, a quanto pare, reagiscono e votano nello stesso modo. E adesso sanno un mucchio di cose a proposito di questi gruppi, ne sanno tanto che possono prevedere come reagirà ciascun gruppo, ancor prima che si presenti l’occasione alla quale reagire».
Non è proprio Cambridge Analytica, è la più rudimentale Simulmatics – che esisteva davvero, seppure non nella forma immaginata da Burdick. «I tecnici prendono ‘la temperatura del pubblico’», notava l’autore nell’allarmatissima prefazione. «Se è febbrile, si dirà ‘la febbre è una bella cosa, ha il mio appoggio’. Se la temperatura è bassa, bisogna dire ‘la passività è una bella cosa. Sono decisamente a suo favore’. Questo può condurre a risultati dannosi oppure no, ma senza dubbio porterà alla fine della politica come l’hanno conosciuta gli americani in passato».
Oggi che la temperatura del pubblico è misurata non ogni mese o settimana ma ogni minuto, chiunque ne segua gli sbalzi repentini sembrerà schizofrenico. Se poi è già squilibrato in partenza, peggio per noi. «Potrebbe diventare un incubo», commenta un altro personaggio. «Se un pazzo o un individuo avido di potere si mette ad adoperare roba di questo genere, tutto il gioco cambia».
Verso la fine del libro ha una terribile visione: il vecchio Joseph McCarthy che torna dai morti e adopera i nuovi sistemi. «Si immaginava insieme al senatore defunto negli uffici della Simulations Enterprises, in Madison Avenue, a osservare i nastri, le bobine, le luci, i pulsanti e a fare piani per una magistrale manipolazione del pubblico americano, in modo che accettasse la sua pazzia».
Era il 1964. Burdick non aveva ancora visto niente, e per giunta sarebbe morto l’anno dopo, nel 1965 – lo stesso anno in cui la rivista di fantascienza Galaxy pubblicò uno strano raccontino di uno studente, Norman Kagan, intitolato “Laugh Along with Franz”.
Se la distopia post-kennedyana di Burdick paventava gli eccessi della programmazione razionale, lo scherzo di Kagan aveva intuito invece che la minaccia poteva venire dal versante opposto, quello dell’azzardo e dell’assurdo.
Il racconto è ambientato in un’America futura dove quasi nessuno va più a votare, perché tutti sanno che le elezioni sono un vuoto cerimoniale. In questa larghissima maggioranza di astensionisti, però, si fa strada l’idea di una burla: se il mondo è come il “Castello” kafkiano e la vita come il “Processo”, tanto vale spingersi un po’ più in là nei territori dell’insensato, affluire in massa alle urne e scrivere sulla scheda lo stesso nome: «Franz Kafka for President! Why not?».
La pensata goliardica scappa di mano, e Kafka è eletto presidente degli Stati Uniti. L’orsetto Waldo di Black Mirror sarebbe arrivato solo cinquant’anni dopo.