Futuro e presenteCosa racconteremo ai nostri nipoti del coronavirus?

La fase 2 ci porta a rivedere i nostri cari e a fare i primi bilanci. Proprio adesso ognuno di noi sta costruendo un suo racconto: un ricordo che per molti sarà drammatico mentre per altri colmo di gratitudine per i singoli e per le collettività

Si conclude la prima settimana della cosiddetta Fase 2, in cui oltre 4 milioni di persone sono tornati ai rispettivi lavori. Tutti noi abbiamo seguito giorno dopo giorno gli aggiornamenti sullo stato dell’arte della mobilità, sulle linee guida che persone e aziende devono seguire per le riaperture, sulle norme che persone e aziende devono rispettare a ogni passo che si trovano a fare avanzando nel percorso di questa porzione di esistenza che ci siamo ritrovati all’improvviso a vivere.

Che nostro malgrado ci siamo ritrovati in un periodo che resterà scritto negli annali della storia è oramai un dato di fatto. Alcuni di noi ci hanno già fatto l’abitudine perché noi esseri umani ci abituiamo a tutto, anche l’orrore diventa a lungo andare normalità.

La vittima si abitua all’aguzzino. Il recluso alla reclusione. È un dato di fatto provato dalla storia. Per questo sappiamo già che un giorno ci capiterà che parleremo ai nostri nipoti di questi giorni di pandemia. 

Ma come lo faremo? Cosa racconteremo? Quali dettagli e con quali parole? Porteremo con noi il ricordo di lunghe settimane monotone e sempre uguali oppure di notti insonni in preda all’ansia o alla paura? Saranno racconti dolorosi?

La scienza dice che a rendere i ricordi memorabili ci pensano alcuni fattori tra cui il nuovo, il cambiamento, la transizione da uno stato all’altro, e la connotazione emotiva.

Ecco perché ritengo importante, in questa fase, saper abbandonare la domanda tipica che ci siamo posti nel corso di questi ultimi mesi che è stata più o meno “cosa sta succedendo?”, e interrogarci invece su cosa fare, quali pensieri avere, quali azioni compiere.

Se ce ne restiamo ben lontani dai pensieri distruttivi che non farebbero nient’altro che trasportare nel nostro futuro emozioni angoscianti, ma ci proiettiamo in una dimensione costruttiva, creativa, quindi luminosa, abbiamo l’occasione di creare una nuova architettura di pensiero, proattiva verso il nuovo. Insomma, è adesso che occorre scegliere se apparterremo a coloro il cui racconto ai nipoti sarà quello di un vinto o di un vincitore.

Impegnarci a formulare pensieri di accoglienza, di prosperità abbinati ad azioni solidali e progettuali per il futuro, non potrà che far sorgere in ciascuno di noi e in tutti noi, quel sentimento di gratitudine necessario al cambiamento.

Può sembrare offensivo, esagerato o addirittura oltraggioso in queste circostanze affermare che dovremmo approfittare di questo momento per potenziare e rafforzare il sentimento di gratitudine per i singoli e per le collettività, arrivando a dire grazie finanche a questo evento storico.

Ma se per un attimo sfrondiamo il nostro pensiero da tutte le sovrastrutture acquisite e ci focalizziamo sul concetto che la vita che abbiamo, ogni suo istante e tutto ciò che esso ci riserva, è un dono, acquisiamo la piena consapevolezza della necessità di essere grati.

Dire grazie è un atto consapevole poiché è una parola che non affiora alle nostre labbra in maniera naturale nemmeno nei momenti normali figuriamoci in quelli straordinari o imprevisti o spaventosi, nella nostra natura è naturale anzi provare paura in queste fasi.

Tuttavia, siccome i ricordi esistono quando li raccontiamo e dunque con il racconto li rendiamo condivisi e quindi collettivi, quanti di noi hanno vissuto questi giorni in una condizione di relativa tranquillità, lavorando dallo studio della propria abitazione e con l’unica preoccupazione di come superare i momenti di noia, dovranno consapevolmente ringraziare per questo dono immettendo gratitudine nelle vite di coloro che invece ricorderanno il peso emotivo e fisico di questi mesi.

Cioè chi ha vissuto un lutto, chi ha perso il lavoro, o chi, come medici e infermieri solo per fare un esempio, sono stati a stretto contatto con il dolore e il rischio.
Questo è il tempo giusto per dimostrare chi possiamo essere. Uscendo dalle nostre dimore, in questi e nei prossimi giorni, ci ricongiungeremo con i nostri cari ma incontreremo anche i nostri vicini.

Come li tratteremo?  Con quali occhi li guarderemo? Li vedremo come nemici oppure come amici? Cioè sceglieremo di comportarci da primitivi difendendoci dall’altro o peggio aggredendolo per farne una preda, per derubarlo anche del pane e perseverando nel comportamento egoisticamente ripiegato su noi stessi oppure sceglieremo di imparare la lezione?

Mutuando un magnifico ragionamento di Patrizio Paoletti, voglio sottolineare che siamo una specie che da tempo immemore costruisce il proprio codice comportamentale sul paradigma mors tua vita mea, in taluni frangenti e in taluni contesti ha prodotto l’ulteriore degenerazione del mors tua, mors mea che si è incarnata in attentatori e terroristi programmati sull’idea di determinare la propria morte per favorire quella del cosiddetto nemico. Ora è necessario uno slancio evolutivo che ci faccia invertire la rotta per entrare finalmente nella nuova era del vita tua, vita mea.

Questo virus, questo imprevisto invisibile a suo modo ha reso visibile l’interconnessione esistente tra tutti gli individui e ha reso evidente la necessità di occuparci degli altri per occuparci di noi stessi. Adesso serve che questa evidenza entri nel racconto collettivo e si propaghi nel futuro sino a diventare ricordo, vorrà dire che lo avremo inglobato nella nostra storia perché reso esecutivo.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter