Attori, musicisti, saltimbanchi, tecnici e in generale artisti, uniti dall’hashtag #convocatecidalvivo, hanno manifestato sabato in 14 piazze italiane per ricordare al governo di stare vivendo una fase molto complicata, e di essere stati abbandonati. Nei decreti di questi mesi, infatti, non sono state previste coperture adeguate per il comparto dell’arte, in ginocchio fin dall’inizio dell’emergenza, e che ora rischia di non rialzarsi più.
«A partire da marzo sono saltate tutte le stagioni teatrali e la programmazione. Questo è un mestiere in cui si vive nella precarietà, e il lockdown ha aggravato una crisi che c’era già da tempo. È un settore da sempre poco tutelato, lasciato a se stesso. Se si deve andare avanti così fino a ottobre, c’è bisogno di un sostegno economico», racconta a Linkiesta Giulia Marchesi, attrice e formatrice di teatro a Milano.
La richiesta è l’introduzione di un “reddito di sussistenza e continuità” per sostenere questi professionisti finché l’emergenza non si sarà esaurita, così come di essere convocati per discutere la modalità della ripartenza, insieme a sindacati, governo e istituzioni. La riapertura dei teatri a partire dal 15 giugno e dei locali, infatti, non cambia la sostanza: molti finiranno per non ripartire.
«Il governo ha dato la possibilità a teatri e cooperative di accedere al Fondo integrato salariale, una sorta di cassa integrazione dei lavoratori del mondo dello spettacolo. Ma il sostegno era previsto per le chiamate di lavoro fatte entro il 23 febbraio, mentre per molti lavoratori le chiamate arrivano last minute, quindi non potevano dimostrare di avere avuto occasioni di lavoro perse», spiega a Linkiesta Donato Nubile, presidente di Smart-It, società mutualistica per artisti e freelance in vari campi.
«In più, l’indennità dei 600 euro era disponibile per chi aveva un contratto attivo al 17 marzo, ma molti di questi contratti si attivano soltanto nelle singole giornate di lavoro, quindi queste persone non potevano ricevere il contributo. E nemmeno potevano chiedere la disoccupazione, perché il decreto Cura Italia aveva vietato i licenziamenti».
«Anche in condizioni normali noi lavoriamo tutti i giorni, ma spesso veniamo pagati solo per le giornate di spettacolo. Ci sono famiglie dove entrambi i genitori sono artisti, adesso quanti di noi torneranno a lavorare? Chiediamo che ci sia un reddito di emergenza per tutti, finché la crisi non sarà superata. Adesso qualcosa inizierà a riaprire, ma nello stilare i protocolli nessuno ha pensato di interpellarci», dice a Linkiesta Francesca Biffi, attrice e scenografa parte del coordinamento di Attrici e attori uniti, uno dei tanti gruppi di lavoratori del mondo dello spettacolo e culturale nati durante il lockdown, fra i promotori del flash mob.
Contrariamente ai gilet arancioni, quella degli artisti è stata una manifestazione molto ordinata, fra mascherine e distanze di sicurezza, applicate disegnando con il gesso dei cerchi per terra. «Il nostro è stato un modo per unire le nostre voci in nome degli articoli 4, 9 e 33 della Costituzione. Perché nonostante l’ordinamento italiano preveda la nostra esistenza, nei fatti siamo considerati lavoratori “atipici”, come se in noi ci fosse qualcosa di sbagliato, mentre invece serviamo in questo paese, adesso più che mai», dice Biffi.
Alla manifestazione ha aderito anche Raffaele Kohler, trombettista della Raffaele Kohler Swing Band. È stato fra coloro che, il 15 marzo, all’inizio del lockdown, hanno animato il flash mob musicale di Milano. Kohler aveva suonato “O mia bela Madunina” dalla sua finestra. «La musica in quell’occasione ha istantaneamente avuto l’effetto di unire le persone, pur essendo distanti all’interno delle proprie case. È quello che bisognerebbe far capire a tutti, insegnandolo anche nelle scuole: le forme di arte e di espressione sono una linfa vitale per l’essere umano e per la nostra società. Noi veniamo dalla cultura dell’antica Grecia, dove le arti erano un’abitudine fondamentale della vita di tutti i giorni: poi è arrivata la tivù di Berlusconi con i talent show ed ha appiattito tutto, ma spero ancora che la prenderemo a riferimento», racconta a Linkiesta.
Se il mondo della cultura e dell’arte in genere è stato così dimenticato, è soprattutto per un problema culturale. È così che attori e musicisti si sono ritrovati, ben prima del lockdown, a lavorare senza tutele, spesso all’interno del mercato nero, non vedendosi riconosciuta una professionalità che invece si costruisce solo nel corso di anni. Ma le cose possono ancora cambiare.
«La piazza è stato un modo per raccogliersi e per sottolineare quanto l’Italia sia indietro rispetto a paesi come il Belgio e la Francia. Adesso è il momento per seguire l’iter di proposte come lo statuto sociale europeo dell’artista e arrivare in fondo a riforme come quella dello spettacolo dal vivo, ferma in parlamento da tempo», conclude Nubile. «Ci sarebbe da rivedere l’intero sistema del sostegno pubblico alla cultura, la crisi del coronavirus potrebbe essere il momento buono per farlo».