«E dunque? Cosa può succedere, non sarà mai così terribile. Non si morirà mica. Berlino è grande, e dove vivono mille, ne vivrà anche uno in più». Così scriveva Alfred Döblin alla fine degli anni Venti nel suo capolavoro modernista Berlin Alexanderplatz.
Berlino: una metropoli fondata sulla capacità di agglomerazione, di condivisione dei contrari, di adattamento negli opposti, di persone, di luoghi, di forme di aggregazione. Un modo per poggiare lo sguardo sulla capitale tedesca, oggi, e attribuire significato a ciò che vediamo, può realizzarsi tramite la seduzione di narrazioni adatte, loro stesse, al mutamento.
Perché solo uno sguardo moltiplicatore, infatti, restituisce la storica adattabilità della città in forme che riportino anche il netto delle fantasmagorie in essa presenti. Tre film, visti alla settantesima edizione della Berlinale lo scorso febbraio e prossimi a uscire in Germania nelle sale, grazie alla riapertura, ci offrono questa possibilità.
Perché mai una ninfa acquatica, immortale, moderna e antichissima, di nome Undine, succube e proprio in virtù di questo, finalmente libera di scatenare le proprie pulsioni e rivoltarsi, dovrebbe raccontarci la storia del castello di Berlino, lo Schloss, le vicende della sua fondazione barocca, i danneggiamenti subiti durante la Seconda guerra mondiale, la distruzione inflittagli nel dopoguerra e la rinascita prevista dal nuovo progetto dello Humboldt Forum?
Il regista Christian Petzold, autore del film omonimo, ha realizzato il singolare connubio tra una donna abbandonata e il destino di un monumento, che si è trascinato nei secoli, mutando aspetto senza però rinunciare alla sua funzione accentratrice: dalla corte regia fino alla nuova vita di moderno foro cittadino.
La stessa fondazione di Berlino si cela dentro l’acqua: la parte storica del centro, l’isola dei musei che sorge sullo Sprea, dove fu poi eretto il monumentale Schloss, era in parte una palude. È la suggestione che lega il mito di Undine (nel film interpretata da Paula Beer, che ha vinto l’Orso d’argento per questo ruolo) a quello della nascita della città: un’area melmosa, cangiante, liquida, naturalmente moderna. Dopo l’abbattimento definitivo dello Schloss nel 1950, la zona venne utilizzata per il mastodontico Palast der Republik, che subirà la stessa sorte, la demolizione, a causa della pericolosità dei materiali come l’asbesto.
Una seconda pellicola immette nel racconto di Berlino e dei suoi luoghi un altro elemento legato alla trasferibilità del mito: Schwesterlein, delle registe svizzere francofone Veronique Chuat e Stéphanie Reymond. Qui l’edificio cittadino interessato è il celebre teatro Schaubühne, sulla Kurfürstendamm. Non siamo più in pieno centro, ma in uno dei quartieri confinanti, a Wilmersdorf. Il teatro odierno è parte di un edificio polifunzionale, costruito alla fine degli anni Venti, ascrivibile alla corrente del Neue Sachlichkeit, l’equivalente dell’espressionismo in architettura, che poi sfocerà nel Bauhaus.
All’interno del complesso, sorgeva anche il famoso cinema Universum, che all’epoca era il più grande cinema di Berlino. Distrutto durante la guerra, la sua ricostruzione come teatro negli anni Sessanta portò a ospitare la compagnia Schaubühne am Halleschen Ufer, di ispirazione brechtiana.
Un’altra potente dimostrazione su come la capitale sappia assumere caratteristiche camaleontiche, rigenerando strutture adattabili al cinema, al teatro, alla vita. Il volto di Nina Hoss è la maschera perfetta che lo spettro del cinematografo può indossare per l’occasione. In Schwesterlein, l’attrice tedesca interpreta Lisa, drammaturga che ha lasciato Berlino per la Svizzera al seguito di marito e figli.
Il ritorno alle forme espressive della scrittura, alla finzione che per lei rappresenta il gioco stesso della vita, è reso inutile (e quindi artisticamente necessario) a causa della malattia del gemello, Sven, istrione teatrale di successo, l’Amleto dello Schaubühne, interpretato da quel Lars Eidinger che ha portato davvero in scena il principe shakespeariano nel teatro berlinese, nella realtà.
L’edificio, così, diventa il protagonista in chiaroscuro, un centro pulsante del melodramma, che attraverso i suoi specchi deformanti tra verità e finzione moltiplica le strade e gli interni, le luci e le ombre, e apre il sipario, una volta di più, sul palcoscenico della capitale.
Il terzo tentativo di riprendere Berlino, decifrando il suo tessuto connettivo e mutevole, è la trasposizione cinematografica di Berlin Alexanderplatz, il Großstadtroman di Döblin. Qui la celebre piazza, fulcro commerciale e interscambio della capitale durante il periodo weimariano, poi scenograficamente ristrutturata durante la DDR come centro di Berlino Est e nuovamente ripensata con la riunificazione, viene celebrata a paradigma di fluidità moderna, come una vetrina, colorata e lisergica, delle vicissitudini berlinesi di Francis, un immigrato africano.
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