In tema di tirar giù statue e ripensare la società intera dopo la morte di George Floyd, negli Stati Uniti è venuto giù un monumento. E non parliamo di “Via col Vento”: Paramount Network ha cancellato “Cops”, il più antico reality show della storia, uno dei programmi più longevi della televisione americana.
Dopo i fatti di Minneapolis, le proteste in tutta la nazione, le campagne per definanziare o abolire i dipartimenti di polizia, il network ha deciso che non era più il caso di mandare in onda la 33esima stagione di un programma il cui unico contenuto è – da oltre trent’anni – mostrare veri poliziotti che arrestano persone vere, per reati gravi come per inezie, e per tutte le sfumature penali in mezzo.
Come nelle statistiche, anche in “Cops” a finire in cella erano quasi sempre neri, ispanici, poveri, prostitute, tossicodipendenti, disabili, persone affette da malattie mentali.
Tutti cittadini non attrezzati a difendersi dalla polizia o dalla televisione, soprattutto quando si presentano insieme. «Non abbiamo in programma di mandare più in onda “Cops”», ha fatto laconicamente sapere Paramount. In attesa delle riforme annunciate o promesse, è saltato il principale beatmaker ideologico della cultura poliziesca americana.
Il mondo dello spettacolo non è mai stato avaro di storie di polizia e poliziotti, ma nessuno show ha incarnato e nutrito il feticismo degli americani per le manette quanto “Cops”. Dal 1989 a oggi il programma – inventato da un ex soldato con una laurea in arte di nome John Langley – ha dato sostanza, colore e argomenti all’idea che le città sono pericolose, che il crimine è dappertutto e che le forze dell’ordine sono l’unica barriera a protezione dei corpi e delle case degli onesti cittadini.
“Cops” era stato mandato in onda per 25 anni dalla Fox, prima di passare a Spike, la Tv di Paramount. Nel 2017 ha superato quota 1.000 puntate. Per la polizia americana è stato una piattaforma unica per mostrarsi alle proprie condizioni: senza giornalisti o sceneggiatori, solo un cameraman, un tecnico del suono e la pattuglia.
Dan Taberski ha dedicato un podcast di sei puntate (Running from “Cops”) alla sua de-costruzione e pone così la questione: «“Cops” è stato la rappresentazione culturale dominante dell’operato della polizia americana fino all’arrivo degli smartphone». Non è un caso che siano state le immagini di uno smartphone a Minneapolis ad averne innescato la fine.
Col suo carico di adrenalina a buon mercato, “Cops” deflagra come una bomba nella sonnolenta Tv americana di fine decennio. Nel 1989 il programma più guardato era il “Bill Cosby Show”, il film numero uno al botteghino era “Tre scapoli e una bimba”, George H.W. Bush diventava presidente alla fine dell’anno.
John Langley arriva negli studi della Fox con il video di un’operazione anti-droga della polizia in Florida: immagini brutali, dal taglio amatoriale, incredibilmente vere. Steven Chao fu il primo a sentire il pitch e a proporlo ai suoi capi, in preda a un entusiasmo febbrile.
Ancora oggi racconta: «Non esiste un programma televisivo migliore di “Cops”, è come un’ameba unicellulare, non puoi scomporlo ulteriormente».
In ogni puntata c’era pochissimo e c’era tutto: inseguimenti, violenza, terrore, pornografia della povertà. Ai dirigenti della Fox piacque anche perché era in corso uno sciopero degli sceneggiatori, che per fare “Cops” non servivano.
Grazie all’intuizione di Langley si poteva avere un programma come “Hill Street Blues” al costo di 200 dollari a puntata, senza pagare gli attori, il regista o il set e molto più reale di qualsiasi poliziesco.
Così nasce l’epopea di “Cops”, che cresce parallela alla militarizzazione della polizia e all’incarcerazione di massa. Quando ha presentato il progetto alla Fox, Langley aveva promesso: «Posso produrre un video così alla settimana».
Le statistiche gli davano ragione: in quegli anni la curva degli arresti aveva iniziato a impennarsi, alimentata dalla lotta alla droga di Reagan. Il crimine era percepito come il problema numero d’America, il pubblico era contemporaneamente terrorizzato e rassicurato da “Cops”, che negli anni ’90 faceva un’audience da 8 milioni di spettatori a puntata.
In più, Langley aveva decodificato la mentalità della polizia, sapeva che gli avrebbero garantito il vero ingrediente segreto: accesso totale.
Aveva capito che era nel loro interesse farlo. Per dirla con le parole di Michael Hallett, docente di criminologia della University of North Florida che ha studiato il fenomeno già negli anni ’90: «In “Cops” i dipartimenti di polizia si comportano come un’organizzazione politica che prova a controllare il suo messaggio e la sua immagine pubblica».
Non solo erano i protagonisti assoluti degli episodi, non solo erano loro a fornire materiale, situazioni e contesto, ma avevano anche il controllo editoriale su ogni singola puntata, il diritto di veto su cosa andava in onda e cosa no.
In teoria anche i cittadini arrestati avrebbero avuto lo stesso diritto: per usare le immagini i producer avevano bisogno di una liberatoria.
“Running from Cops” fa un lavoro investigativo a ritroso, che mostra come il contesto, le pressioni, l’arbitrarietà delle situazioni, il desiderio di essere rilasciati o di avere un trattamento umano spingessero le persone a farsi manipolare e a firmare contro il proprio interesse, anche perché il metodo “Cops” prevedeva di pescare nella povertà, nel disagio e nella fragilità.
Come dice Taberski, «Nessuno sceglie volontariamente niente mentre è ancora in manette». Con quella firma, perdevano per sempre il controllo di quelle immagini, che sarebbero state trasmesse per anni, replica dopo replica, syndication dopo syndication, senza nessun diritto all’oblio, anche se poi fossero stati riconosciuti innocenti.
Quando un dipartimento di polizia invitava il programma, contemporaneamente si assicurava di fornire abbastanza arresti, con città che ne facevano centinaia in più solo per riempire le puntate.
L’intreccio di polizia, propaganda e reality arriva al punto che ad Atlanta nel 1998 un sospettato riesce a scappare dai poliziotti ma viene placcato dal videomaker (che aveva lanciato la camera al tecnico del suono), finendo arrestato direttamente dalla televisione, il paradosso americano in purezza. D’altra parte, come racconta Steven Chao, «l’idea di fondo di “Cops” era fare una sorta di moderna giustizia televisiva».
Ora questo capitolo si è chiuso, ma il suo impatto durerà a lungo su un certo tipo di pubblico, per i trent’anni di attività e per i cloni ancora in circolazione. Su YouTube ci sono centinaia di video di ragazzini che «giocano a fare “Cops”», arrestandosi a vicenda e tramandando l’idea di polizia che in queste settimane si prova a riformare.
Con questa cancellazione non viene messo in discussione un modo di fare ordine pubblico, ma un modo di fare televisione, ed è già qualcosa.
Una delle ultime spallate è stato un video diffuso questa settimana, ma risalente al 2019, di un afroamericano di nome Javier Ambler, morto mentre veniva arrestato dalla polizia di Austin.
L’episodio è avvenuto mentre la pattuglia era seguita da uno show clone, intitolato “Live PD”, stesso principio, stesso metodo, network diverso.
Ambler muore per un collasso cardiaco causato dal peso del poliziotto che lo ammanettava, una dinamica non molto diversa da quella di George Floyd.
Era stato fermato perché non aveva acceso i fari della sua auto, l’ennesima interazione senza motivo, probabilmente causata dal fatto che al programma serviva del materiale per la puntata. “Live PD” aveva distrutto il video, ma la morte di Ambler era stata registrata da una bodycam.