Inside PragaPerché la costruzione di una centrale nucleare in Cechia sta diventano un caso geopolitico

Per Stati Uniti e Unione europea l’ipotesi che un’infrastruttura così strategica sia costruita da una impresa russa o cinese è uno scenario da scongiurare. Al premier ceco serve il via libera della Commissione per finanziare con fondi comunitari i lavori, ma il progetto c’entra poco col Green deal europeo

Afp

Per la Cechia l’energia nucleare è una risorsa fondamentale:  le due centrali presenti sul territorio – una a Temelín, in Boemia, e una a Dukovany, in Moravia – producono il 35% dell’elettricità consumata dal paese centro-europeo.  

Vista la notevole importanza assegnata al nucleare nella strategia energetica ceca, quando la Commissione aveva presentato il Green deal durante il Consiglio europeo dello scorso dicembre, Praga aveva subito invocato la possibilità di continuare ad avvalersi di questa fonte energetica per raggiungere gli stringenti parametri fissati da Bruxelles.

Andrej Babiš si era difeso ricordando che i 27 Stati membri hanno panieri energetici molto diversificati e la transizione verso la neutralità climatica avrebbe avuto costi molto diversi per ciascuno Paese.  Il premier ceco pochi mesi prima aveva già sottolineato come la Cechia avrebbe dovuto costruire nuovi reattori anche a costo di violare le norme comunitarie e aveva minacciato di non sostenere il progetto qualora la richiesta di inserire questa clausola non fosse stata esaudita. 

Grazie al supporto della Francia, altro Stato che dipende ampiamente dall’energia nucleare, la proposta ceca era stata poi inserita nelle conclusioni finali, nonostante l’opposizione di molti Stati, come Austria o Germania, che rifiutano di considerare il nucleare una fonte d’energia pulita.  

Incassato questo successo diplomatico, comunque insufficiente a placare lo scetticismo di Babiš verso il Green deal, Praga ha ripreso con rinnovato vigore i piani per incrementare la produzione di energia nucleare: l’obiettivo è costruire un nuovo reattore all’impianto di Dukovany. 

Obiettivo che i cechi non possono centrare con le sole proprie forze. Come sempre nel Vecchio Continente, infatti, l’energia è un affare geopolitico. Le scelte di ogni governo sono influenzate da geometrie di potere che coinvolgono attori esterni, interessati a ritagliarsi fette di influenza durature tramite la costruzione, la manutenzione e a volte la gestione di infrastrutture così strategiche in paesi terzi sprovvisti delle competenze necessarie.  

Potendo facilmente trasformarsi in cavalli di Troia per attori esterni, progetti così delicati richiedono allora il nulla osta della Commissione, che deve accordare agli Stati membri interessati la possibilità speciale di destinare risorse pubbliche a questa finalità. Costruire o ampliare una centrale nucleare senza ricorrere a fondi statali è difatti pressoché impossibile, motivo per cui dopo varie resistenze anche Praga ha recentemente annunciato l’intenzione di sobbarcarsi il 70% dei costi del progetto, previo ok comunitario.  

L’odierno braccio di ferro tra Praga e Bruxelles è una riedizione di quello che aveva interessato la Commissione europea e un altro membro del Gruppo Visegrád, l’Ungheria, relativo all’ampliamento della centrale nucleare di Paks, l’unica presente su suolo magiaro. Il contenzioso si era risolto nel 2017 in modo gradito a Budapest, che due anni dopo aveva potuto affidare i lavori alla russa Rosatom, impresa a capitale pubblico fondata dal presidente Vladimir Putin nel 2007 solitamente ritenuta dalla maggior parte degli analisti occidentali uno strumento al servizio del Cremlino.  Oltre al mero guadagno in termini di produzione di energia, la dirigenza magiara guardava all’ampliamento della centrale di Paks anche come a un’opportunità per corroborare l’affinità tra Russia e il proprio Staro, uno dei meno fedeli al vincolo atlantista tra I 27. 

Che Mosca capitalizzi scaltramente la propria egemonia in campo energetico per mantenere un saldo piede nelle vicende europee è storia nota, almeno dal secondo dopoguerra. La dipendenza dell’intero blocco Ue dalla Russia è proprio uno dei deficit che l’Ue, esortata dagli Usa, vorrebbe colmare, anche tramite iniziative come il Green deal che andando a ridurre considerevolmente il consumo di petrolio e carbone diminuirebbero massicciamente l’influenza che Mosca si ritaglia tramite l’esportazione di questi combustibili. 

Meno spesso menzionato, invece, è il fatto che la Russia non dispone solo di risorse energetiche, ma anche di tecnologie avanzate: Rosatom è una delle aziende leader nel settore del nucleare globale. 

Poiché proprio la compagnia russa sembra la candidata meglio posizionata per aggiudicarsi l’appalto per l’ampliamento dell’impianto di Dukovany, la questione sta creando parecchi grattacapi alla dirigenza ceca. Gli altri candidati sono la cinese General Nuclear Power, l’americana Westinghouse, la sudcoreana Knhp e la nippo-francese Mitsubishi Atmea. A fronte delle crescenti tensioni tra blocco occidentale e Cina, anche la candidatura di General Nuclear Power suscita comprensibili preoccupazioni. 

Per Washington e Bruxelles l’ipotesi che un’infrastruttura così strategica per la Cechia cada in mano russo o cinese è uno scenario da scongiurare. Soprattutto nell’odierna fase geopolitica, così fluida da rendere arduo pronosticare come si evolveranno le tensioni tra Usa e Cina, o anche l’improbabile intesa in funzione anti-occidentale che sembra attualmente vigere tra Mosca e Pechino. È in questo perimetro di equilibri mutevoli e contestati che si gioca la sfida per intestarsi la costruzione del nuovo reattore di Dukovany. 

E la Cechia, come tutti gli Stati post-comunisti (riuniti da Pechino nel format 17+1, assieme alla Grecia), è una preda ambita. A differenza dell’Ungheria, dove la tattica sovranista del premier Viktor Orbán ha sdoganato da tempo la possibilità di flirtare con Russia, Cina e qualunque altro attore esterno (e illiberale) che possa garantire benefici materiali immediati, la Cechia pare al momento interessata a mantenersi leale al blocco occidentale. Ma la fede atlantista di politici e opinione pubblica non è così inscalfibile, come invece, per esempio, in Polonia. 

Le palpabili propensioni filorusse e filocinesi sono incarnate dall’istrionico presidente Miloš Zeman, uno dei critici più implacabili della politica estera Ue.  La sua influenza deriva sia dall’interpretazione molto estensiva che assegna al proprio ruolo di presidente, sulla carta poco più di una carica cerimoniale, che dalle reti di potere cui partecipa. Pechino e Mosca l’hanno da tempo identificato come il cavallo su cui puntare per provare ad attrarre Praga nella propria orbita.

E Zeman si è prestato volentieri a interpretare il ruolo di bastian contrario, come suggerito dalla nomina nel 2015 di Ye Jianming, fondatore della cinese CEFC China Energy Company Limited, a proprio consulente economico o da alcune delle sue boutade più controverse, come l’affermazione che la Bosnia potesse diventare un bastione europeo dello Stato islamico o la proposta di annullare il riconoscimento del Kosovo, così vicine alla retorica russa che avrebbero potuto  provenire direttamente dall’ufficio stampa del Cremlino. 

Uscite simili hanno sì creato imbarazzo all’esecutivo guidato da Babiš, ma senza finora causare nessuna ricaduta concreta. Il corso – pragmaticamente – europeista della Cechia non sembra a oggi destinato a subire deviazioni sostanziali. 

La situazione potrebbe tuttavia cambiare a causa dell’indebolimento della posizione di Babiš, recentemente finito sotto il fuoco dell’Europarlamento. La commissione Controllo dei bilanci sostiene che il primo ministro ceco sia ancora coinvolto nelle vicende societarie del colosso Agrofert, l’holding che l’ha reso uno degli uomini più facoltosi del paese e da cui sostiene di essere fuoriuscito già nel 2017, quando venne nominato ministro delle Finanze nel precedente esecutivo.

Come riportato dal Guardian, pare invece che Babiš detenga ancora il controllo effettivo di Agrofert, che tra l’altro ha beneficiato e ancora beneficia di copiosi sussidi Ue. Se confermato, si tratterebbe di un evidente conflitto di interessi, specie considerato che al momento Babiš rappresenta il proprio paese nelle negoziazioni su quel quadro finanziario pluriennale 2021-2027 che definirà le quote di fondi comunitari allocate a ciascuno Stato membro – e quindi alle sua aziende. Il Parlamento europeo vuole ora imporgli di scegliere definitivamente una delle tre opzioni: lasciare davvero Agrofert, non usufruire di fondi Ue o dimettersi da cariche pubbliche.  

Anche per proteggere i propri interessi personali, l’inasprimento dei rapporti con l’Ue potrebbe spingere il premier ad avvicinarsi maggiormente a Zeman, formando così un tandem informale tra I due vertici delle istituzioni cece propenso a riorientare il paese maggiormente verso Est di quanto osato finora.  

Uno scenario al momento remoto, ma, qualora nella gara per aggiudicarsi la commessa del reattore di Dukovany dovesse spuntarla una tra Rosatom e General Nuclear Power, difficilmente Praga potrebbe continuare a raccontarsi come quell’”Occidente rapitodi cui parlava Milan Kundera a inizio anni ’80.

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