Come nei film, sono arrivati anche i cowboy. Ci sono anche loro nelle manifestazioni sorte negli Stati Uniti in seguito all’uccisione di George Floyd a Minneapolis da parte della polizia. Girano a cavallo, hanno il classico Stetson a tesa larga, spesso una mascherina (obbligatoria per il Covid) che ricorda il fazzoletto usato per proteggersi dalla polvere. A differenza dei film, però, sono neri.
Perché, nonostante venga poco ricordato, almeno il 25% dei 35mila che giravano lungo la frontiera tra il 1870 e il 1880 era afroamericano.
La mitologia dei western li ha, con molta semplicità, cancellati. Ancora prima di John Wayne, o Clint Eastwood – che canonizzerà la figura dell’eroe solitario, che sopravvivrà fino all’uomo della Marlboro – e soprattutto in seguito, i protagonisti del genere potevano essere solo bianchi.
Nei film, nei libri e nei fumetti il modello era solo uno. Oppure c’erano gli indiani, spesso nella parte dei cattivi, e qualche cinese – nei prodotti più stereotipati era spesso impiegato in una lavanderia.
Eppure nella realtà, in particolare tra Texas e California, erano numerosi gli afroamericani. Molti di loro discendevano da ex schiavi fuggiti dai Paesi del Sud subito dopo la Guerra Civile, in cerca di lavoro e opportunità.
Chi sapeva lavorare con il bestiame – all’epoca era necessario spostarli per chilometri fino a raggiungere le regioni centrali, come il Kansas, il Colorado e il Missouri – era molto ricercato.
Non erano sempre bene accetti. Come ricorda William Loren Katz, che all’argomento ha dedicato 40 libri, tra cui “The Black West”, poteva capitare che nei villaggi non trovassero accoglienza, che fosse proibito mangiare in alcuni posti o dormire in altri ancora.
Eppure, godevano di stima e rispetto e un livello di parità con i colleghi finora ineguagliato. Alcuni di loro divennero anche famosi per le loro abilità nei rodeo. Nat Love e John Ware, per esempio, erano delle vere celebrità, quasi delle leggende.
Bill Pickett, poi, fu un innovatore, inventando la tecnica del “bulldogging”, con cui riusciva a saltare addosso a un manzo e sottometterlo mordendo le labbra.
E ancora: Bose Ikard, cui venne dedicato un epitaffio dal datore di lavoro, il signor Goodnight: «Ha lavorato con me per quattro anni, mai mancato a un dovere né disobbedito a un ordine. Abbiamo domato insieme diverse ribellioni di animali, ha partecipato a tre scontri con i comanche».
C’è spazio anche per le donne, come Stagecoach Mary, che da schiava è diventata la prima afroamericana che faceva il corriere.
Era il vecchio selvaggio west, insomma, molto diverso da come viene rappresentato al cinema: c’erano i pionieri, i fuorilegge, i mandriani, come si racconta. Ma molti di loro erano neri.
Con il tempo anche la vita di frontiera cambia. L’arrivo del treno rende più semplice il trasporto delle merci e degli animali, il telegrafo cancella il lavoro dei corrieri postali. E gli indiani, sempre più confinati nelle riserve, smettono di essere un pericolo.
Nel giro di breve molti cowboy devono trovare un nuovo lavoro, finendo per essere assorbiti dalla nuova società, sempre più urbana, che stava cambiando il volto delle città.
I neri, a causa del loro colore e delle discriminazioni, avranno più difficoltà rispetto ai bianchi nel trovare una nuova collocazione. È in questo momento che la riscrittura dell’epopea della frontiera comincia a rimuoverli, fino a farli sparire.
Anche per questo nel tempo – ma non prima degli anni ’70 – sono sorti negli Stati Uniti musei, federazioni e centri in cui cowboy neri – contemporanei – cercano di portare avanti una tradizione, e una storia, altrimenti messa da parte. Sono loro che, in questi giorni, hanno scelto di manifestare, scendendo in strada, Stetson testa e stivali, in sella al loro cavallo.