È un ritorno alla canzone, per Pasquale Panella. O forse una riscoperta. Perché i nuovi 40 testi (ma in tutto saranno un centinaio) che il poeta e filosofo romano farà uscire nei prossimi giorni, costituiscono il repertorio di un misterioso Vito Taburno, che ne sarebbe il vero autore. Vero o falso che sia, ma forse più vero del vero, a sentire lo stesso Panella.
Taburno è un personaggio enigmatico, nato negli anni ’20 – così assicura Panella – che ha esordito in Etiopia, «dove inizia strimpellando nelle colonie» e procede, tornato in Italia, di serata in serata, esibendosi in night, balere e rotonde, fino agli anni ’70. Insieme ai classiconi «si divertiva a inserire anche qualche canzone sua, scritta da lui».
Eccole. Panella le ha riscoperte – o secondo altre versioni, le ha ricevute in via diretta da lui – e le ha riportate in vita, testo e musica. Dedicandogli anche una pagina Facebook, dove Vito riappare – brani della sua vita, del suo pensiero, sotto la sigla “Vito Cantò”.
È un ritorno alla canzone. «E al tempo stesso non lo è». Perché Taburno, «che adesso avrebbe, o avrà (chi può dirlo) 100 anni esatti – dopo gli anni ’70 è sparito, vaporizzato, non sappiamo se sia ancora vivo – costituisce un arretramento per me, più che un ritorno».
Le sue (di Taburno o di Panella, il confine non si intravede più) sono canzoni che preesistono a chi le ha fatte: «Mi hanno preceduto, sono qui prima di me, e che mi hanno raggiunto nel tempo».
Incarnano lo spirito di un’epoca, ma possono essere scritte per l’oggi, «sono brani leggeri, elementari, di struttura semplice».
Cose tenui e semplici, di poco valore. «E lo penso. Perché io, come Taburno (e lo dirà in futuro), non amo le canzoni. Lo dico con affetto, ma le canzoni sono quanto di peggio abbiano prodotto gli esseri umani nella storia».
La ragione, secondo Panella, è (per così dire) semplice: «Nella canzone, nella canzonetta, tutte le arti falliscono. Vale per le figure, le statue, le immagini, che nelle canzoni si annientano. Vale per la pittura, il pittorico, che nelle canzoni scompare. E più di tutto, vale per la scrittura».
La canzone «fa deperire ciò di cui parla, affranca dal rifiuto». E «il Novecento, che ha vissuto di perversione, ed è il più scatenato in questo senso, visto che ha proceduto per abbattimento, non a caso è il secolo della canzone».
Questo aspetto, cioè quello «del fallimento, che nella canzone si attua, non si persegue soltanto», sottolinea, «c’entra con la consapevolezza di Vito, ma non con le sue canzoni». Che sono state recuperate, o scritte, (chi può dividere il personaggio dall’autore?) e musicate insieme a Gianni Bisori, con cui Panella aveva collaborato per il disco del 2012, “Pensiero Ballabile”. Infine cantate da Matteo Setti (Notre Dame de Paris).
I brani sono tutti «educati», anche se di riga in riga traspare «la maleducazione, espressione prima di Arbasino che di Almodovar, che condivido con Vito. Io, come lui, sono sempre stato recalcitrante all’educazione», cosa che non significa non dire parolacce o comportarsi bene, «ma affidarsi all’ortodossia anziché all’istinto. E le canzoni sono il genere che più di tutti nasce affidandosi all’ortodossia, al già sentito, al già detto. Sono per natura vocate a essere educate». Altrimenti «non sarebbero comprensibili».
Per questo le trasgressioni di Vito, che rimane sempre un personaggio che con le canzoni doveva vivere, erano poche, limitate («in “Dondolan”, esempio della raccolta, ci sarà nel testo un “uccello” che sale nel cielo, e la parola la pronuncio io, cui si sovrappone “il canto”, e lo dice Matteo: una smagliatura, e lo sente solo chi lo sa già, ma che apre alla consapevolezza di Vito. Certe cose sono indicibili, perché provocherebbero una reazione (nel cinema sarebbe un controcampo)».
Per uno come Panella, per cui «la canzone sarebbe molto più parlare della canzone che la canzone stessa», da sempre attratto «dalle parole», visto che «ho scritto tante canzoni, ma in realtà con le mie canzoni non scrivevo canzoni ma parlavo di canzoni, cioè mi aggiravo da degenere intorno al genere (battuta da ’900, che abbatte, si distanzia), mi astraevo e da una radura le osservavo, le canzoni. Ne parlavo. E vedi cosa succede? Che le canzoni, non amate da me, cominciavano ad amarmi».
Per questo «uno come me, così inorganico alla musica, sarebbe stato preso a calci. Ma le canzoni mi volevano bene», anche se l’affetto non era ricambiato.
Serve fare attenzione. «Le canzoni sono sempre servite come calmiere, hanno rimbambito generazioni, hanno calmato interi popoli. È stato fatto credere di avere cultura, di avere interessi, di avere un modo per disporre del tempo, con le canzoni».
Sono un inganno dal sapore platonico, insomma, «che crea confinamento, su cui si sostengono le dittature. Le canzoni sono un monitoraggio, molto comodo, di quello che pensano le persone. Sono un modello. E un fiaccamento».
Alla fine, ciò che significano davvero «non si può dire. E questa è sempre la migliore conclusione possibile. O ci arrivi da solo – e te la tieni per te. O non ci arrivi. E anche questo te lo tieni per te».