Non ho mai sognato l’esame di maturità. Per molti anni ho creduto che tutti quelli che dicevano di sognare di doverlo ridare, come massimo incubo, mentissero. Voleva dire che eravamo una popolazione di bugiardi (tranne me, dicevano di sognarlo tutti), ma non mi sembrava poi grave. Poi i miei coetanei hanno cominciato a figliare.
Continuavano a dire di sognare l’esame di maturità, ma a quel punto era pseudologia fantastica: il nome che la scienza dà al fatto che hai raccontato una stronzata abbastanza volte da essertene convinto (finge così completamente, scriveva quel portoghese che leggevamo l’anno della maturità, che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente). Tutti coi nonni partigiani, tutti a sognare la maturità.
Solo che nel frattempo avevamo figliato (io no, io sono lietamente sterile, ma mi sento responsabile per le pecche della mia generazione), e quei figli cominciavano ad andare a scuola.
Adesso che tutte le mie coetanee mamme passano le mattine su Facebook a dirci quanto siano speciali i loro figli, che frase spiritosissima abbiano detto ieri, che preziose creature incomprese dalla maestra siano, che sopruso sia la scuola che pretende imparino i numeri da 1 a 10 invece di lasciarli esprimere; adesso comincio a capire.
Adesso che ogni campo estivo che si permette di dire che sarebbe meglio il pupo santo di mamma sua non prendesse a sputi le educatrici è un luogo da denuncia per vessazione di minore (avrete notato anche voi che i gruppi Facebook sono un’ottima spiegazione alla lentezza della giustizia italiana: a ogni rimostranza espressa da chiunque, da «non andavo a lavorare da otto mesi e non mi hanno rinnovato il contratto» a «mi hanno detto che mio figlio è indietro col programma perché a dodici anni non sa l’alfabeto», il suggerimento corale è «Denunciali»); adesso comincio a capire.
Adesso che l’ultimo trimestre l’abbiamo passato a sentirci illustrare il dramma della didattica a distanza, e il trauma di questi bambini privati della socialità, dei rituali, delle caccole attaccate sotto al banco, delle merendine rubate, un trauma indicibile, senza precedenti, una generazione rovinata, cosa c’entra che i loro nonni andavano a scuola sotto le bombe, vuoi mettere; adesso comincio a capire.
Adesso che il prossimo trimestre s’annuncia altrettanto monotematico, come sarebbe riaprite le scuole a fine settembre, se la mia creatura non vincerà il Nobel vedete come vi denuncio, per avergli sottratto preziose settimane d’istruzione che, insegnandogli meglio tardi che mai l’alfabeto, avrebbero fatto di lui il nuovo Harold Pinter, e della sorella la nuova Marie Curie, un ruolo per il quale è evidentemente portatissima non appena supererà l’ostacolo di non saper contare fino a dieci, io finora non l’ho voluta forzare ma ora che va per i quattordici anni di certo se l’aveste riaccolta a scuola il primo settembre avrebbe colmato questa lacuna, ha proprio una predisposizione per i calcoli e le scienze, si vede; adesso comincio a capire.
Adesso che apro i giornali e trovo ovunque articoli sulla maturità, con la scusa che gli esami in post-virus sono anomali; adesso che accendo la tv e ci trovo una ventenne famosa che parla con un certo distacco della sua maturità, e la quarantenne che la intervista è ben più emozionata nel raccontare la propria; adesso comincio a capire.
Non è per la nostalgia dei walkman gialli e degli zainetti Invicta, che avevano (avevamo) affollato i cinema per Notte prima degli esami; è proprio perché, in sogno o proiettandola sulla prole, non abbiamo mai smesso di squarciagolare «maturità, t’avessi preso prima» (e anche «La matematica non sarà mai il mio mestiere», che è il verso con cui ci consoliamo se abbiamo dei figli che le equazioni neanche tenendoli per mano: è che tu hai il temperamento artistico, bello ammammà).
È perché non ne siamo mai usciti che continuiamo a sognare i banchi, che abbiamo fatto del liceo una mitologia che neanche Venditti, che ci ha fatto almeno tre delle sue canzoni più famose (e almeno aveva avuto la botta di culo di fare la maturità in un anno con una qualche decente mitologia annessa: «Era l’anno dei mondiali, quelli del ’66, la regina d’Inghilterra era Pelé»).
È perché non vogliamo che i nostri figli siano ridotti così, trent’anni dopo ancora a vantare i buoni voti nell’interrogazione di latino, che ci siamo ingarbugliati in tante menate che stanno all’istruzione come i filtri di Instagram stanno alla nostra faccia: steineriana, Montessori, homeschooling, e tutti i modi per dire «dovete promuoverlo senza farlo faticare, perché la fatica è un trauma, ve lo dico io che un trauma serio non ce l’ho mai avuto, e infatti ancora sogno quella volta che non mi chiesero subito l’argomento a piacere».
Adesso comincio a capire come siamo diventati così rammolliti; non oso però ancora immaginare cosa diventeranno i nostri figli: quelli cresciuti da gente che, intorno ai cinquanta, ancora si commuove pensando a «quella del primo banco, la più carina, la più cretina, cretino tu».